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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia

UNITÀ C
La letteratura religiosa

UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo

UNITÀ F
La poesia comico-realistica


ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici


Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.

Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950


Dante Alighieri
Divina Commedia
Allegoria e figura: nella selva del peccato
DIV1a

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[Inferno, canto I]
Il primo canto dell’Inferno costituisce il proemio dell’intero poema. Dante-personaggio, all’età di trentacinque anni, si smarrisce in una «selva oscura» e cerca di uscirne scalando un colle illuminato dal sole. L’ascesa risulta impossibile perché egli viene ostacolato da tre fiere: una lonza, un leone e una lupa. Dante è dunque soccorso dall’anima del poeta latino Virgilio, che gli indica il difficile cammino che dovrà compiere per salvarsi: si tratta di un percorso che, attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso, condurrà il poeta fino alla visione di Dio. Delle tre fiere che ostacolano il cammino di Dante, la più temibile è la lupa. Virgilio afferma che il mondo potrà esserne liberato solo grazie alla venuta di un «veltro» (un cane da caccia), in grado di risospingerla all’Inferno. Si tratta di una oscura profezia, il cui avverarsi è collocato in un incerto futuro. Per Dante-personaggio non rimane che affrontare il viaggio lungo i tre regni oltremondani. Virgilio gli farà da guida fino al Purgatorio; da allora in poi, all’antico poeta pagano – cui non può essere concessa l’entrata nel regno di Dio – subentrerà Beatrice.

Nel mezzo del cammin di nostra vita1
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita2. 3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura3! 6

Tant’è amara che poco è più morte4;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte5. 9

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai6. 12

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto, 15

guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle7. 18

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta8. 21

E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l’acqua perigliosa e guata, 24

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva9. 27

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso10. 30

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta; 33

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto11. 36

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino 39

mosse di prima quelle cose belle12;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle 42

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone13. 45

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse14. 48

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame, 51

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza15. 54

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista16; 57

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace17. 60

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco18. 63

Quando vidi costui nel gran diserto,
« Miserere di me» , gridai a lui,
« qual che tu sii, od ombra od omo certo19!» . 66

Rispuosemi: « Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui20. 69

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi21,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi22. 72

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Iliòn fu combusto23. 75

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?24» . 78

« Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?» ,
rispuos’io lui con vergognosa fronte. 81

« O de li altri poeti onore e lume
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume. 84

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore25. 87

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi26» . 90

« A te convien tenere altro viaggio» ,
rispuose poi che lagrimar mi vide,
« se vuo’ campar d’esto loco selvaggio: 93

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide27; 96

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria28. 99

Molti son li animali a cui s’ammoglia29,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia30. 102

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro31. 105

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute32. 108

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla33. 111

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno, 114

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida34; 117

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti35. 120

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire36; 123

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna37. 126

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge38!» . 129

E io a lui: « Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio, 132

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti39» . 135

Allor si mosse, e io li tenni dietro40.





1 Nel mezzo… vita: A quell’età che coincide con la metà della vita umana. La durata media della vita umana veniva fissata dai medievali in settant’anni. Lo stesso Dante, nel Convivio (IV, XXIII, 6-10) scrive: « Tutte le terrene vite […] convengo essere quasi ad imagine d’arco assimiglianti […]. Lo punto sommo di questo arco […] ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno e […] ne li perfettamente naturati […] nel trentacinquesimo anno». È proprio nel punto più alto dell’arco (che rappresenta, al tempo stesso, la metà esatta del cammino e la piena maturità) che si colloca l’azione del poema. Essendo Dante nato nel 1265, il viaggio si svolge dunque nel 1300, ed inizia esattamente nel venerdì santo di quell’anno (durante il quale papa Bonifacio VIII aveva proclamato il primo Giubileo).

2 mi ritrovai… smarrita: mi ritrovai in mezzo a (per) una foresta tenebrosa (selva oscura; indica allegoricamente il peccato) poiché la strada diritta (diritta via: quella che conduce alla virtù) era <temporaneamente> perduta (il participio smarrita implica la possibilità di un successivo ritrovamento). Nella prima terzina Dante si presenta come personaggio, indicando le coordinate temporali dello straordinario viaggio di cui è stato protagonista. Ma, pur raccontando una vicenda eccezionale e individuale (come indica il pronome personale « mi» del v. 2), il poeta fa anche capire che la sua storia riguarda l’intera umanità (come indica, al v. 1, l’aggettivo possessivo al plurale: «nostra vita» ).

3 Ahi quanto… paura: Ahimé, quanto è difficile (cosa dura) da descrivere (a dir) come era fatta (qual era) questa (esta, dal lat. ista) selva inospitale (selvaggia; l’aggettivo forma figura etimologica con il sostantivo « selva» ), intricata (aspra) e impenetrabile (forte; i tre aggettivi sono legati da polisindeto), <tanto> che, solo a pensarci (nel pensier), fa nascere di nuovo (rinova) la paura! Nella seconda terzina Dante si presenta come poeta e avverte il lettore della difficoltà di ricordare e narrare la sua straordinaria esperienza. Nel v. 4 il verbo al presente, « è» , si riferisce al tempo in cui Dante poeta scrive, mentre l’imperfetto « era» si riferisce al tempo in cui Dante personaggio ha intrapreso il suo viaggio).

4 Tant’è amara… morte: <La selva> è tanto atroce (amara) che la morte lo è poco di più. Il verso si intende meglio tenendo presente il significato allegorico della selva: il peccato è così atroce che la dannazione (che è la « morte» dell’anima) è solo di poco peggiore.

5 Ma per trattar… scorte: Ma, per parlare (trattar) del bene che io trovai lì (vi), dirò delle altre cose che ho visto lì (ch’i’ v’ho scorte). Il « bene» trovato da Dante è probabilmente Virgilio, che appare in questo stesso canto (vv. 61 e sgg.) e gli farà da guida lungo l’Inferno e il Purgatorio. Le « altre cose» sono invece il colle illuminato dal sole, che Dante cercherà di scalare (vv. 13-30), e le tre fiere che Dante vede prima di incontrare Virgilio (vv. 31-60).

6 Io non so ben ridir… abbandonai: Io non so raccontare (ridir) esattamente (ben) in che modo entrai nella selva, tanto ero ottenebrato dal sonno (pien di sonno: allegoricamente il sonno indica la condizione dell’anima accecata dal peccato e dimentica della ragione) in quel momento (a quel punto) in cui (che) abbandonai la via veritiera (verace: la via della virtù, la « diritta via» ). Si può cogliere, in questa terzina, il distacco psicologico tra la condizione di Dante personaggio, che al momento in cui comincia l’azione è ottenebrato dal sonno, e quella di Dante poeta, che racconta il viaggio essendo ben consapevole del suo errore passato.

7 Ma quando… calle: Ma quando io fui arrivato (giunto) ai piedi di un colle, là dove terminava quella selva (valle: il termine richiama l’evangelica « valle di lacrime» ) che mi aveva trafitto (compunto) il cuore con la paura, guardai in alto, e vidi le parti più alte del colle (le sue spalle) già rivestite dai raggi del pianeta che conduce (mena) nella giusta direzione (dritto) chiunque (altrui) lungo qualsiasi cammino (per ogne calle). Quest’ultima perifrasi indica il Sole che, secondo il sistema tolemaico accettato dai medievali, era il quarto dei pianeti che ruotavano intorno alla Terra. Il Sole è allegoria di Dio che, con la sua luce, mostra a tutti il cammino « dritto» verso la salvezza (lo stesso Dante, in Convivio III, 12, dice che « nullo sensibile in tutto ’l mondo è più degno di farsi esempio di Dio, che ’l sole» ). Il colle illuminato dal Sole, che si contrappone alla selva del peccato, rappresenta la vita virtuosa illuminata dalla Grazia di Dio.

8 Allor… pieta: Allora fu un po’ placata (queta) la paura, che nel fondo del cuore (lago del cor: è la cavità nella quale, secondo la medicina medievale, affluivano gli spiriti vitali; tale cavità viene metaforicamente indicata come « lago» perché è piena di sangue) mi aveva tormentato (m’era durata) <per> tutta la notte che io passai con tanta angoscia (pieta; il termine, attestato in Dante anche nella forma “pietà” , aveva per i medievali significato diverso dall’attuale).

9 E come quei… persona viva: le due terzine contengono la prima similitudine del poema, in cui lo stato d’animo di Dante personaggio è accostato a quello di un naufrago appena scampato alle onde. E come colui che con respiro affannoso (lena affannata), approdando alla riva dopo essere scampato al mare aperto (pelago), si rivolge verso l’acqua tempestosa (perigliosa) e guarda fisso (guata), allo stesso modo (così) il mio animo, che provava ancora il desiderio di fuggire (che ancor fuggiva) si volse indietro a riguardare il passaggio (passo: indica il confine tra la selva e le pendici del colle) che nessuna persona viva ha mai attraversato (lasciò; nella parafrasi, abbiamo considerato « persona viva» come soggetto e « che» , riferito a « passo» come complemento oggetto). Il significato allegorico di quest’ultimo verso è che a nessuno è consentito passare direttamente e con facilità dal peccato (selva) alla salvezza (colle); e infatti questa ascesa immediata risulterà per Dante impossibile. Il brano però è di interpretazione discussa. Sapegno, ad esempio, legge il relativo « che» come soggetto, intendendo l’espressione come il passaggio che non ha mai lasciato sopravvivere nessuno. Allegoricamente, il brano significherebbe in tal caso che « l’abitudine al peccato conduce alla dannazione ogni anima» .

10 Poi ch’èi posato… più basso: Dopo che ebbi (èi) riposato un po’ il corpo stanco (lasso), ripresi il cammino (via) per il pendio (piaggia, dal latino medievale plagia) deserto, in modo tale () che il piede fermo stava sempre più in basso (rispetto a quello che si muoveva). Anche questo passo ha suscitato numerose e discordanti interpretazioni allegoriche. In senso letterale, il v. 30 indica probabilmente il procedere incerto e faticoso di Dante, proprio di colui che sta scalando un pendio.

11 Ed ecco… vòlto: Ed ecco, quasi all’inizio (cominciar) della ripida salita (erta) una lonza (è un animale di incerta identificazione; il termine, che proviene dal francese antico lonce, indica la lince; ma potrebbe trattarsi anche di una pantera o di un ghepardo) agile (leggera) e molto veloce (presta), che era ricoperta di pelo chiazzato (maculato); ed <essa> rimaneva dinanzi al mio viso senza andarsene (non mi si partia dinanzi al volto), anzi ostacolava talmente il mio cammino, che io fui più volte tentato (vòlto) di ritornare indietro. « Volto» del v. 34 fa rima equivoca con «vòlto» del v. 36 (le due parole hanno la stessa grafia, ma significato differente), e quest’ultimo verbo forma paronomasia con il sostantivo « volte» . La lonza è il primo degli animali allegorici che ostacolano l’ascesa di Dante. Secondo l’interpretazione più diffusa essa rappresenta il peccato della lussuria, che impedisce all’uomo l’ascesa verso il cielo.

12 Temp’era… cose belle: L’ora era (Temp’era) prossima all’alba (dal principio del mattino; il complemento di tempo retto dalla preposizione “da” non è raro in Dante) e il sole sorgeva (montava ’n sù) in quella stessa costellazione (con quelle stelle: si tratta della costellazione dell’Ariete) con cui si trovava congiunto quando Dio (l’amor divino) fece muovere per la prima volta (mosse di prima) le stelle (quelle cose belle, perifrasi). Si riteneva che il mondo fosse stato creato nell’equinozio di primavera; la perifrasi dei vv. 38-40 significa dunque che, quando Dante iniziò il suo viaggio, si era nella stagione di primavera, la stessa in cui Dio aveva creato il mondo.

13 sì che… d’un leone: sicché l’ora <propizia> del giorno (tempo) e la dolce stagione <di primavera> erano per me (m’era) motivo (cagione) di speranza (di bene sperar) riguardo a (di) quella fiera dalla (a la: costruzione del complemento di qualità che ricalca la forma francese à la) pelle variopinta (gaetta, dal provenzale caiet); ma non tanto (ma non sì) che la visione (vista) che m’apparve di un leone non mi mettesse paura. Il leone rappresenta allegoricamente, secondo l’interpretazione più diffusa, il peccato della superbia.

14 Questi parea… tremesse: Sembrava che questi (il leone) venisse verso di (contra) me con la testa alta e con fame minacciosa (rabbiosa), in modo tale che sembrava che l’aria ne tremasse. Le parole « venisse» (v. 48) e « tremesse» (v. 48) formano rima siciliana. La forma « tremesse» è modellata sul verbo latino tremere.

15 Ed una lupa… dell’altezza: Ed una lupa che, con il suo corpo magro (ne la sua magrezza) sembrava gravata (carca) di ogni sorta di bramosia (di tutte brame), e <che> fece già vivere molti popoli (molte genti) in miseria (grame: quest’inciso si spiega pensando al fatto che la lupa rappresenta allegoricamente l’avarizia, che induce ad accumulare ricchezze impoverendo il prossimo), proprio essa (questa, pleonastico) mi diede (porse) una tale oppressione (tanto di gravezza), con la paura che scaturiva dal suo aspetto (vista), che io perdetti la speranza di <conquistare> la cima del colle (l’altezza). L’incontro con la terza fiera, la più terribile, convince definitivamente Dante dell’impossibilità di passare direttamente dalla selva del peccato alla vetta della salvezza.

16 E qual è quei… attrista: E come colui che con tutte le sue forze (volentieri) accumula ricchezze (acquista), e giunge il momento che lo costringe a perdere <tutto>, <momento> in cui (che, relativo riferito a « tempo» ) piange e si rattrista in ogni suo pensiero… Questa terzina – che descrive un uomo avido di ricchezze o, secondo alcuni, un giocatore – contiene il secondo termine di paragone di una similitudine che descrive lo stato d’animo di Dante il quale, dopo essersi illuso di aver quasi conquistato la salvezza, se la vede invece sfuggire. Il primo termine di paragone è contenuto nella terzina successiva.

17 tal mi fece… tace: simile a costui (tal) mi rese (fece) la bestia insaziabile (sanza pace) la quale, venendomi incontro, mi sospingeva (ripigneva) a poco a poco dove il sole non si vede (tace: si tratta di una sinestesia, in quanto una senzazione visiva, il buio, viene rappresentata metaforicamente da una sensazione uditiva, il silenzio). È il primo termine di paragone della similitudine contenuta nelle precedente terzina.

18 Mentre ch’i… parea fioco: Mentre io cadevo rovinosamente verso il fondo della valle (in basso loco), dinanzi agli occhi mi apparve (mi si fu offerto) colui che, a causa del lungo silenzio, sembrava quasi muto (fioco). La terzina si comprende meglio tenendo presente che il personaggio che viene ora presentato, Virgilio, rappresenta allegoricamente la ragione. Quest’ultima appariva affievolita « per lungo silenzio» , cioè perché Dante, smarrito nel peccato, ne aveva perduto l’uso.

19 Quando vidi… omo certo: Quando vidi costui in quel vasto luogo solitario, gridai a lui: “Abbi pietà (Miserere; è l’imperativo del verbo latino misereor, usato nella liturgia ecclesiastica) di me, chiunque (qual che) tu sia, <tanto se sei> un’anima (ombra), quanto se sei un uomo in carne ed ossa (omo certo).

20 Rispuosemi… ambedui: Mi rispose: “Non <sono un> uomo <vivo>, fui uomo <vivo> in passato (già), e i miei genitori (parenti, latinismo) furono dell’Italia settentrionale (lombardi), entrambi (ambedui) mantovani per luogo di nascita (patria)”.

21 Nacqui sub Iulio… fosse tardi:Nacqui al tempo di Giulio Cesare, anche se in epoca troppo avanzata. Virgilio era nato nel 70 a.C. e aveva 26 anni quando, nel 44, Giulio Cesare fu ucciso. Trascorse dunque sotto Cesare soltanto la sua giovinezza, senza scrivere, sotto il suo governo, nessuna delle opere che lo avrebbero reso famoso.

22 e vissi a Roma… bugiardi: “e vissi a Roma sotto il governo del valente (buono) Augusto, al tempo degli dei falsi e ingannevoli”. Il Virgilio che Dante incontra nell’Oltretomba è ormai consapevole del fatto che la religione pagana, alla quale aveva creduto durante la sua vita (il poeta morì nel 19 a. C.), era in realtà falsa. Virgilio era considerato dai medievali un uomo di straordinarie virtù morali, e perfino un anticipatore inconsapevole del Cristianesimo [DIV2b]. Tuttavia, non avendo egli ricevuto il battesimo, nel poema dantesco gli è impedita la visione di Dio [DIV6]: da questo contrasto tra eccezionale virtù umana e impossibilità di salvezza deriva la drammaticità del personaggio.

23 Poeta fui… fu combusto: Dopo avere precisato luogo e tempo della propria esistenza terrena, Virgilio si presenta facendo riferimento all’Eneide, la sua opera più importante: "Fui poeta, e scrissi (cantai) di quel giusto figlio di Anchise (si tratta di Enea, protagonista del poema) che venne <in Italia> da (di) Troia, dopo che la superba Ilio (la rocca di Troia, designata come « superbum Ilium» in Eneide III, 2-3) fu bruciata (combusto, latinismo)". Il troiano Enea, dopo la distruzione della sua città, intraprese un viaggio destinato a concludersi in Lazio. Furono i suoi discendenti a fondare Roma. Secondo i medievali, tutta la storia romana obbedisce a un disegno provvidenziale, finalizzato a garantire la universale diffusione del cristianesimo [DIV2a].

24 Ma tu perché… tutta gioia: "Ma tu perché ridiscendi (ritorni) verso un luogo così tomentoso (tanta noia; si tratta di una metonimia, perché il luogo concreto viene indicato attraverso un sostantivo astratto; da notare che nel Medioevo il termine « noia» significava “tormento” o “grave danno”, come il provenzale enueg)? Perché non sali il gioioso (dilettoso) monte (si tratta del colle che Dante ha inutilmente tentato di scalare) che è principio e causa (cagion) di completa beatitudine (tutta gioia)?”.

25 Or se’ tu… onore: “Dunque (Or) sei tu quel famoso (quel assume in questo caso il valore del latino ille) Virgilio e quella fonte che spande (il verbo spandi è concordato a senso ala seconda persona) così largo fiume di eloquenza poetica (di parlar)?” , gli risposi io con viso (fronte, sineddoche) atteggiato a reverenza (vergognosa). “O <tu che sei> l’onore e la guida (lume) degli altri poeti, mi aiutino a conquistare il tuo favore (vagliami; verbo al singolare per una pluralità di soggetti) il lungo studio e il grande amore che mi hanno indotto a consultare attentamente (cercar) la tua opera (volume). Tu sei il mio maestro e la mia autorità (autore, termine di derivazione latina che ha la stessa radice di auctoritas), tu sei il solo da cui io ho preso (tolsi) il nobile stile <poetico> che mi ha dato gloria (onore)”. L’Eneide di Virgilio era considerata il modello dello stile tragico che, secondo la teoria degli stili diffusa nel Medioevo e fatta propria dallo stesso Dante [G33], doveva caratterizzare la poesia più elevata e nobile. Dante aveva adottato questo stile nelle sue canzoni di argomento morale e dottrinale che considerava, prima di scrivere la Divina Commedia, il suo più alto risultato poetico.

26 Vedi la bestia… i polsi: Guarda (Vedi) la bestia a causa della quale (per cu’) sono tornato (mi volsi) <verso la selva>. Proteggimi (Aiutami) da lei, o famoso sapiente, poiché (ch’) essa mi fa tremare le vene e le arterie (polsi, metonimia). Virgilio è detto « saggio» perché nel Medioevo veniva visto come uno dei più grandi sapienti dell’antichità pagana; oltre che dotto e poeta, era considerato un profeta e un mago.

27 A te convien… l’uccide: A te è necessario (convien) percorrere (tenere) un altro cammino (viaggio)" , rispose <Virgilio> quando (poi che) mi vide piangere, "se vuoi salvarti (campar) da questo luogo inospitale (selvaggio); poiché (ché) questa bestia, a causa della quale tu gridi <aiuto>, non permette che qualcuno (altrui) passi per la sua strada, ma tanto lo ostacola (’mpedisce) che lo uccide”. Allegoricamente, Virgilio avverte Dante delle conseguenze nefaste del peccato di avarizia.

28 e ha natura… che pria: "e <la lupa> ha natura così cattiva (malvagia e ria è una dittologia sinonimica) che non sazia (empie) mai il suo bramoso desiderio, anzi (e) dopo il pasto ha più fame di prima". L’insaziabilità è una delle caratteristiche distintive dell’avarizia.

29 Molti… ammoglia: "Sono molti gli animali con cui <la lupa> si accoppia (ammoglia)". Il verso potrebbe significare allegoricamente che l’avarizia si congiunge con molti altri peccati (rappresentati allegoricamente come animali); o può voler dire – ed è l’interpretazione più probabile – che nel peccato di avarizia cadono molti uomini (« animali» può infatti semplicemente indicare “esseri animati”).

30 e più saranno… con doglia: "e saranno sempre di più, finché verrà il veltro che la farà morire con dolore (doglia)". Il veltro è, letteralmente, un cane da caccia. Allegoricamente rappresenta un personaggio capace di uccidere la lupa, cioè di eliminare l’avarizia dalla Terra. Non è possibile identificare con certezza tale personaggio, perché questa è una profezia: Virgilio annuncia a Dante un evento che dovrebbe verificarsi nel futuro (probabilmente una riforma dei costumi della Chiesa, o forse la restaurazione del potere imperiale), ma che al tempo in cui il poeta scrive non può che restare indeterminato.

31 Questi non ciberà… feltro: "Costui (Questi) non sarà ingordo (ciberà) né di possedimenti (terra) né di denaro (peltro: è una lega di stagno con altri metalli), anzi (ma) <si ciberà di> sapienza, amore e virtù (questi tre sostantivi richiamano le tre persone della Trinità: rispettivamente il Figlio, lo Spirito Santo e il Padre), e la sua nascita (nazion) avverrà tra umili panni (tra feltro e feltro; il feltro era un tessuto ruvido, indossato spesso dai religiosi). La parafrasi di questo passo è molto discussa, soprattutto riguardo all’espressione « tra feltro e feltro» . Si è ipotizzato che essa contenga una precisa indicazione geografica, o alluda alle urne – foderate appunto di feltro – che venivano usate per l’elezione dei magistrati. Ma nessuno studioso è arrivato a un'identificazione precisa e definitiva del veltro.

32 Di quella umile… di ferute: "<Il veltro> sarà (fia) la salvezza (salute, latinismo) di quella misera (umile) Italia per la quale morirono (morì: verbo al singolare per una pluralità di soggetti) in combattimento (di ferute) la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso". La terzina è densa di richiami all’Eneide, a partire dall’epiteto « umile» riferito all’Italia, che deriva dal virgiliano « humilemque videmus Italiam» (Eneide, III, 522-523), anche se in Virgilio l’aggettivo humilis (da humus, terra) indica il profilo pianeggiante della costa salentina che i Troiani scorgono dal mare. Nella terzina si alternano, con imparziale pietà per tutte le vittime di guerra, i nomi di eroi appartenenti a diversi schieramenti, ma tutti partecipi delle vicende – volute dalla Provvidenza – che avrebbero portato alla fondazione di Roma: Camilla, figlia del re dei Volsci e nemica di Enea; Eurialo, giovane eroe troiano; Turno, principe dei Rutuli e nemico di Enea; Niso, anch’egli troiano e fraterno amico di Eurialo.

33 Questi la caccerà… dipartila: "Costui (il veltro) caccerà la lupa attraverso ogni città (villa) fino a quando la farà tornare (l’avrà rimessa) nell’inferno, da dove (là onde) il diavolo (’nvidia prima, cioè principio dell’odio, contrapposto al “primo amore” che è Dio) la fece partire".

34 Ond’io… ciascun grida: "Per cui io, per il tuo meglio (me’, apocope), penso e delibero (discerno) che tu mi segua, e io sarò tua guida e ti porterò fuori (trarrotti) da qui attraverso (per) un luogo che esisterà in eterno (l’Inferno), dove udirai le urla disperate <dei dannati>, vedrai le anime di uomini morti da molto tempo (antichi spiriti) che patiscono le pene (dolenti), tanto che ognuno grida <di dolore> per la morte dell’anima (seconda morte)".

35 e vederai… beate genti: "e vedrai <anche> coloro che sono contenti pur essendo bruciati dal fuoco (si tratta in generale delle anime del Purgatorio, anche se a bruciare nel fuoco sono, propriamente, soltanto i lussuriosi), perché sperano di salire prima o poi (quando che sia) tra le anime del Paradiso (a le beate genti)". Anche nel Purgatorio – luogo, a differenza dell’Inferno, non destinato a durare per l’eternità – Dante sarà accompagnato da Virgilio.

36 A le quai poi… nel mio partire: "Alle quali <anime del Paradiso>, se tu vorrai poi salire, ci sarà (fia) a tale scopo (a ciò) un’anima più degna di me; partendo, ti lascerò con lei". In Paradiso Dante sarà infatti accompagnato da Beatrice.

37 ché quello imperador… si vegna: "poiché (ché) quell’imperatore che regna in cielo (là sù; la perifrasi del v. 124 indica Dio), giacché io non fui sottomesso (fu’ ribellante) alla sua legge, non vuole che da parte mia (per me, complemento d’agente, modellato sul francese par) si entri (si venga, passivo impersonale del verbo intransitivo, ricalcato sul latino), nella sua città". Si profila qui il dramma di Virgilio, modello altissimo di virtù umana ma escluso dalla salvezza perché pagano: tra coloro che erano vissuti prima di Cristo, si riteneva che solo gli Ebrei potessero salvarsi.

38 In tutte parti elegge: "<Dio> impera in tutte le parti <dell’universo>, ma lì (quivi, nell’Empireo) ha la sua reggia (regge); lì è la sua città e il suo trono (alto seggio); o felice colui che (cu’) egli sceglie (elegge) per il Paradiso (ivi, lett. )".

39 Ed io a lui… mesti: Ed io <risposi> a lui: “ O poeta, io ti chiedo (richeggio), in nome di quel Dio che tu non conoscesti, affinché (acciò ch’) io eviti questo male (la lupa, o più in generale la selva) e un male peggiore (peggio, ossia la dannazione eterna dell’anima), che tu mi conduca (meni) là dove ora hai detto <di volermi condurre>, in modo che (sì ch’) io veda il Paradiso (la porta di San Pietro, sineddoche; in realtà però, nel poema dantesco, il Paradiso non ha porte) e coloro (i dannati dell’Inferno) che tu descrivi come (fai) tanto tristi (mesti).

40 Allor… dietro: Allora <Virgilio> partì, e io lo seguii.


IL TESTO
Premessa
Il canto che apre la Divina Commedia può suggerire numerosi spunti per un primo approccio alla cultura e alla letteratura medievale. In questa lettura ci soffermeremo brevemente sui caratteri tipici del Medioevo che possono emergere dal testo di Dante. Particolare attenzione sarà dedicata al problema dell’allegoria. La sola lettura del primo canto dell’Inferno, però, non consente un adeguato approfondimento di quest’ultimo tema; per tale ragione, riteniamo opportuno affiancare a questo canto altri due testi [DIV1b, DIV1c] che permetteranno di riflettere meglio sulla particolare natura dell’allegoria dantesca.

Dante e l’umanità: il significato universale della Commedia
Per leggere la poesia medievale è necessario tenere conto che essa non è mai la semplice, immediata trascrizione dei sentimenti e delle passioni di un singolo individuo. Per i medievali, ogni individuo va sempre considerato parte di un tutto, ogni sua vicenda deve essere letta in relazione con il mondo in cui è immerso. Il mondo in cui l’uomo vive, a sua volta, non viene mai percepito come un insieme caotico e privo di senso. Esiste, al contrario, un ordine unitario del mondo, il quale riflette un disegno di Dio; disegno che i beati del Paradiso potranno comprendere appieno dopo la morte; ma che in terra si riflette – in forme spesso misteriose – in ogni aspetto della natura e della storia.
Quest’idea di un ordine unitario del mondo ha molti importanti riflessi sulla cultura medievale. In campo religioso e politico, essa si manifesta nell’universalismo, ossia nella convinzione che esistano istituzioni (la Chiesa e l’Impero) che, traendo origine da Dio e rispondendo a un suo disegno provvidenziale, vanno considerate valide per tutti. In ambito culturale, essa si manifesta nell’enciclopedismo, ossia nell’aspirazione a una conoscenza che spieghi tutti gli aspetti del mondo, riconducendoli al loro principio divino (è per questo che la forma più alta del sapere è considerata la teologia). Anche in letteratura questo principio ha conseguenze importanti: non dobbiamo mai leggere la poesia medievale aspettandoci da essa la immediata e “ingenua” trascrizione delle passioni di un individuo avulso dal mondo in cui opera. Il poeta medievale è un uomo di cultura, è filosofo e scienziato, e vuole che la sua opera abbia un profondo significato non solo per lui, ma per ogni uomo destinato a leggerla.
Già fin dalla prima terzina del suo poema, Dante ci ricorda infatti che la vicenda che si accinge a narrare non riguarda solo lui, ma coinvolge l’intera umanità. Al secondo verso, il pronome personale di prima persona (« mi ritrovai» ) sembrerebbe far riferimento a una vicenda che riguarda soltanto Dante; ma già il verso precedente ha chiarito che tale vicenda non va inquadrata semplicemente nella vita del poeta, ma nella vita di ogni uomo: essa si colloca, infatti, « nel mezzo del cammin di nostra vita» .

Poesia e testi sacri: centralità della cultura religiosa
« Ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi» [« Io dissi a metà dei miei giorni: “andrò alle porte dell’Inferno”» ]. Sono parole del profeta Isaia (38, 10) che Dante, come ogni uomo di cultura del suo tempo, doveva conoscere molto bene. I testi sacri, per i medievali colti, erano molto più familiari di quanto non siano oggi. Pertanto, la lettura del verso iniziale della Commedia (che colloca la discesa all’inferno di Dante esattamente alla metà di una vita) doveva facilmente evocare, nel lettore, le parole del profeta. Sono molte le citazioni dai testi sacri presenti nella Commedia. Ne forniamo, relativamente a questo canto, un elenco sommario, al fine di evidenziare come la cultura religiosa sia costantemente sottesa alla letteratura medievale, e in particolare alla poesia di Dante.

I settant’anni della « nostra vita»
Il primo verso, oltre al già citato riferimento a Isaia, presuppone almeno un altro richiamo scritturale che, fissando la durata della vita umana in settant’anni, consenta una determinazione esatta del momento in cui è ambientata l’azione del poema. L’indicazione della durata media della vita umana – oltre ad essere frequente in medici e filosofi – si ritrova nel Salmo 90, 1: « Dies annorum nostrorum septuaginta anni» [« La durata della nostra vita <è di> settant’anni» ].

La selva e le tre fiere
Nel libro di Geremia (VI, 5), vengono elencate le punizioni contro i peccatori che hanno rinnegato il Signore: « Idcirco percussit eos leo de silva; / lupus ad vesperam vastavit eos: / pardus vigilans super civitates eorum» [« Per questo li percosse il leone venuto dalla selva; / il lupo di sera li devastò; / il leopardo <stava> in agguato sopra le loro città» ]. Come si vede, l’immagine delle tre fiere (si ricordi che la lonza è un felino simile al leopardo), come anche il riferimento alla « selva» , hanno anch’esse precedenti nei testi biblici.

Il sonno del peccato
La metafora del sonno usata per indicare il peccato ha anch’essa diversi precedenti scritturali; ricordiamo tra essi la parabola delle vergini sagge e delle vergini dormienti (Matteo, 25) e la lettera di San Paolo ai Romani (XIII, 11): « hora est jam nos de somno surgere. Nunc enim propior est nostra salus, quam cum credidimus» [« è ormai tempo di svegliarci dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti» ]. La conoscenza di questi testi sacri consente al lettore di dare al termine « sonno» un significato più ricco di quello presupposto dalla semplice interpretazione letterale.

Il modello dell’Esodo
Charles Singleton, uno dei maggiori studiosi di Dante, individua dietro questo canto lo schema dell’Esodo, ossia del racconto biblico della fuga degli Ebrei dall’Egitto dove erano prigionieri. Si tratta di un racconto che i medievali consideravano storicamente vero, e che però – come chiarisce lo stesso Dante nel Convivio [G28] – assume anche un significato allegorico, in quanto rappresenta la conversione dell’anima che si volge a Dio abbandonando il peccato (rappresentato appunto dall’Egitto). Nel racconto biblico, come è noto, gli Ebrei attraversano miracolosamente l’acqua del Mar Rosso (nella quale invece saranno sommersi gli Egizi); in seguito, sulla via del deserto, gli Ebrei sono assaliti dalle tentazioni. La prima similitudine del canto (vv. 22-27), con i suoi riferimenti a un’« acqua perigliosa» e all’attraversamento di un « passo» he, come il Mar Rosso per gli Egizi, « non lasciò già mai persona viva» , così come il successivo riferimento alla piaggia « diserta» (v. 29), sono indizi della presenza, dietro il testo di Dante, di questo modello biblico. Del resto l’Esodo, come dimostra Singleton, non ispira solo questo canto, ma costituisce la matrice di diversi passi del poema1. Non è questa la sede per un approfondimento del tema: ci interessa soltanto mostrare come l’opera di Dante istituisca un continuo dialogo intertestuale con le Scritture, e come la comprensione di questo dialogo possa aiutarci a una più profonda comprensione del poema.

Poesia e profezia: una risposta utopistica alla crisi
Oltre a richiamare spesso, nei suoi versi, i testi dei profeti, Dante stesso si pone, in un certo senso, come profeta. Il suo cristianesimo si caratterizza per un forte impegno morale e per una severa condanna della corruzione del proprio tempo, dovuta soprattutto all’accumulazione sempre più sfrenata delle ricchezze (è per questo che la lupa assume un’importanza centrale). Alla negatività del mondo in cui vive, Dante contrappone l’esigenza di un rinnovamento e di un ritorno della Chiesa alla purezza delle proprie origini. Tale attesa è rappresentata, in questo canto, dalla profezia del veltro, figura enigmatica che allude forse a un futuro riformatore, in grado di liberare il mondo dai vizi rappresentati dalla lupa.
La Commedia è ricca di profezie, che però hanno in genere natura diversa da quella del veltro. Spesso i personaggi incontrati da Dante profetizzano eventi futuri che il lettore può identificare come storicamente veri. Ciò è possibile in quanto Dante ambienta l’azione del suo poema nel 1300, ma ha cominciato a scriverlo alcuni anni dopo questa data. Tutti gli eventi storici verificatisi tra il 1300 e il momento dell’effettiva stesura del poema (stesura che non è possibile datare con precisione, ma che comunque si protrasse per molti anni) costituiscono dunque, per i personaggi della Commedia, una profezia. Invece per l’autore – così come per il lettore – essi non sono che fatti storici realmente verificatisi. Si parla in questi casi di profezia post eventum: la profezia costituisce qui una semplice finzione poetica.
Diverso è il caso del veltro. La venuta di questa figura annunciata da Virgilio, così come la liberazione del mondo dal peccato rappresentato dalla lupa, non è certo una realtà storica al momento in cui Dante-poeta scrive la Commedia. Si tratta in questo caso di una delle poche profezie ante eventum contenute nel poema; una profezia la cui realizzazione è collocata dallo stesso poeta – e non solo dai personaggi – in un futuro indeterminato. Il problema del rapporto tra poesia e profezia è comunque complesso e non può essere esaurito in questa sede. Come vedremo analizzando altri brani della Commedia [DIV2b, DIV8], Dante ritiene che ai poeti sia effettivamente concessa l’ispirazione divina, e attribuisce ad essi, pertanto, funzioni simili a quelle dei profeti.

Il tempo e lo spazio
La determinazione del tempo in cui si colloca l’azione ha sempre, in Dante, un’importanza decisiva. Il viaggio nell’Inferno inizia nel 1300, anno del primo Giubileo proclamato da papa Bonifacio VIII; in occasione di queste solennità, la Chiesa concedeva a tutti il perdono dei peccati a patto che compissero un pellegrinaggio e un cammino di penitenza. Il viaggio inizia, inoltre – come può desumersi da altri indizi contenuti nel poema – la notte del Venerdì santo, in cui si ricordano la Passione e la morte di Cristo. Evidentemente non è casuale il fatto che il viaggio di Dante si compia nel tempo rituale della penitenza e della purificazione, e in più nell’anno che la Chiesa ha destinato più di ogni altro alla purificazione dai peccati. Nulla importa, da questo punto di vista, il fatto che Bonifacio VIII fosse un papa fortemente avversato da Dante per il suo temporalismo; all’interno della dottrina cattolica, infatti, l’indegnità del sacerdote non toglie nulla al sacramento.
Anche lo spazio assume importanza fondamentale. Lo smarrimento nel peccato è infatti indicato dalla selva, ossia da un’immagine di spazio intricato, privo di riferimenti, nel quale è impossibile orientarsi. Le immagini di salvezza sono invece disposte nello spazio secondo un ordine preciso: la salvezza si identifica col il percorso verticale (dal basso all’alto) della scalata al colle, percorso indicato dal Sole (che si trova in alto e raffigura Dio). Lo spazio della Commedia è sempre uno spazio orientato verticalmente, secondo un criterio morale: al basso (Inferno) corrisponde il peccato, all’alto (il colle di questo canto, e più tardi la montagna del Purgatorio e i cieli del Paradiso) corrisponde la redenzione. È utile ricordare che, secondo la cosmologia medievale, appariva assai significativo l’ordine spaziale del creato. Si pensava infatti – corentemente con il sistema tolemaico – che la Terra si trovasse al centro di esso e che, intorno alla stessa, girassero nove cieli, di cui sette contenevano i pianeti (tra cui si annoverava anche il Sole), un ottavo le stelle fisse, mentre il nono cielo (Primo mobile o Cristallino) non conteneva astri. Questi cieli ruotavano intorno alla terra secondo il moto impresso loro dagli angeli, i quali ubbidivano alla volontà di Dio. Fuori dai nove cieli fisici era poi lo spazio (del tutto immateriale) del Paradiso propriamente detto (Empireo). Questa immagine dell’universo, che sarebbe stata messa in crisi da Copernico ma che la Chiesa avrebbe difeso ancora a lungo (si pensi al processo contro Galileo), consentiva all’uomo di ritenersi al centro del creato (visione antropocentrica) e di pensare che lo spazio del mondo fosse teleologicamente orientato, cioè costruito da Dio in vista di un fine connesso con l’uomo e con la sua salvezza.

La figura di Virgilio: classicismo e cristianesimo
Altro tema di grande rilevanza che emerge dal primo canto è quello del rapporto tra classicismo e cristianesimo. Il fatto che Dante scelga come sua guida nell’oltretomba non un santo o un dotto cristiano, ma un poeta pagano, può a prima vista sorprendere. Per spiegare questa scelta, occorre sapere che i medievali, che studiavano il latino e gli autori classici, avevano riflettuto a lungo, nel corso dei secoli, sul rapporto tra cristianesimo e classicismo. In un primo momento si era ritenuto che la cultura classica andasse rifiutata nella sua interezza, in quanto portatrice di una religione falsa e ingannevole (questa è, almeno in parte, la posizione espressa nel IV secolo da san Girolamo [A6]). Molto presto, però, si affermò un orientamento diverso: il mondo classico non andava rifiutato nella sua interezza perché gli antichi, seppure in forma imperfetta, avevano anticipato molte verità che sarebbero state svelate dal Cristianesimo (questa è la posizione di sant’Agostino, che di Girolamo fu contemporaneo [A7]). Questo secondo orientamento finì per prevalere: i classici, seppure in forma imperfetta e spesso inconsapevole, erano portatori di una sapienza che il cristianesimo poteva fare propria, dopo averla ovviamente rischiarata alla luce della Rivelazione. Talora, anzi, ai poeti antichi si attribuivano vere e proprie profezie. È il caso dello stesso Virgilio, la cui quarta Ecloga, in cui si parlava di un ritorno all’età dell’oro legato alla prossima nascita di un puer, era letta come un vero e proprio annuncio della venuta di Cristo [DIV2b]. Inoltre Virgilio era il poeta dell’Eneide, un’opera che celebrava le origini dell’Impero romano. A quest’impero i medievali attribuivano una funzione provvidenziale, che Dante stesso chiarisce nella Monarchia: esso, infatti, aveva garantito l’unità politica del mondo antico, favorendo la massima diffusione del cristianesimo. In base a questo classicismo cristiano, che recupera gli autori antichi reinterpretandoli alla luce della Rivelazione, non deve dunque sorprendere il fatto che Dante scelga come sua guida un pagano come Virgilio, ritenuto al suo tempo modello non solo di stile, ma anche di sapienza. Va però detto che la guida di Virgilio non potrà durare per l’intero viaggio: sulla cima del monte del Purgatorio, dove è collocato il Paradiso terrestre, egli dovrà infatti lasciare Dante a una guida cristiana. A Virgilio subentrerà, allora, Beatrice.

IL PROBLEMA
Lettera e allegoria, atto primo
Come si è mostrato nelle note, il primo canto dell’Inferno si presta a essere letto in buona parte come un’allegoria. L’intera vicenda, infatti, oltre a un significato letterale, ne contiene uno che va oltre la lettera: la selva rappresenta il peccato; l’ascesa al colle rappresenta il cammino terreno verso la redenzione; il Sole che lo illumina rappresenta Dio; le tre fiere rappresentano tre tendenze peccaminose che rendono impossibile questa redenzione con le sole forze umane; l’aiuto di Virgilio rappresenta il soccorso della ragione, ecc.
In alcuni passi del testo, addirittura, il senso letterale risulta piuttosto fragile ed è necessario ricorrere a quello allegorico per chiarire il significato del passo. Ad esempio, quando della lupa si dice che « molte genti fé già viver grame» , sembra evidente che il verso non possa riferirsi in senso letterale alla fiera (una lupa non può avere affamato molti popoli) bensì, in senso allegorico, all’avarizia (che è invece, evidentemente, causa di povertà per « molte genti»). Allo stesso modo, quando Virgilio viene presentato con la perifrasi « chi per lungo silenzio parea fioco», il senso letterale appare debole: poiché Virgilio non è ancora apparso nella Commedia come personaggio, appare incongruo fare riferimento a un suo « lungo silenzio». Viceversa, se si riflette sul fatto che Virgilio rappresenta allegoricamente la ragione, il riferimento al « lungo silenzio» appare adeguato a indicare il lungo smarrimento di Dante nel peccato, che comporta anche un affievolirsi delle sue capacità razionali. Nel caso del veltro, poi, il problema del senso letterale non si pone neanche: è chiaro che il cane da caccia rappresenta qualcos’altro, anche se oscuro rimane il preciso significato di questa profetica allegoria.
Quando Dante, nel Convivio, descrive l’allegoria che viene usata nelle « favole de li poeti» , egli precisa che la « lettera» di queste favole si deve considerare una « bella menzogna» , mentre solo il significato allegorico costituisce una « veritade» [G28]. Questa definizione dell’allegoria – che coincide con quella tradizionale, con la quale i lettori di poesia hanno perfetta familiarità – sembra a prima vista adeguata a descrivere questo canto: il senso letterale (per esempio la lupa) può apparire come una « bella menzogna» (al punto che, in alcuni passi, non è neanche autosufficiente), mentre la vera interpretazione delle parole del poeta va ricercata nell’allegoria (i versi sulla lupa si intendono pienamente quando si comprende che essa è la raffigurazione di un peccato).
Tuttavia, se riflettiamo sulla figura di Virgilio, possiamo accorgerci facilmente che una sua pura e semplice identificazione allegorica con la ragione sarebbe inadeguata. Dal momento in cui prende la parola, Virgilio è infatti un personaggio vivo e complesso, che rievoca con affetto le figure degli eroi cantati dalla propria poesia, o che soffre sinceramente per la propria impossibilità di godere della visione di Dio. Se dunque, in alcuni passi del canto, siamo stati tentati di trascurare il significato letterale (L) della Commedia per limitarci a quello allegorico (A) – e dunque di leggere il testo secondo la “formula” A al posto di L – occorre avvertire che questa non sarà affatto la regola del poema: in esso infatti – e in ciò consiste non poca parte del suo fascino – il senso letterale è, di norma, del tutto autosufficiente. Il significato allegorico, anziché sostituirsi ad esso, gli si affianca e lo si arricchisce; la “formula” è, in altre parole, A+L.
Sul motivo per cui Dante, alle porte dell’Inferno, usi l’allegoria in maniera diversa da quanto avverrà nel resto dell’opera, esistono diverse interpretazioni. Una linea critica che va da Croce a Sapegno ritiene che nei primi canti della Commedia Dante non abbia ancora affinato del tutto gli strumenti della propria arte. Secondo Charles Singleton, invece, il poeta h
a voluto di proposito costruire i primi due canti come prologo del suo poema, adottando una forma allegorica tradizionale e familiare al lettore. Nel resto dell’opera, viceversa, il senso letterale non solo è del tutto autosufficiente, ma è addirittura da considerare letteralmente vero (secondo quella che si definisce allegoria dei teologi). A un approfondimento di questo tema (che presuppone anche la riflessione dantesca sull’allegoria contenuta nel Convivio [G28] e nell’Epistola a Cangrande [G30]) dedicheremo altre due letture di brani del Paradiso [DIV1b] e del Purgatorio [DIV1c]. A conclusione di quest’approfondimento, ci limitiamo ad avvertire che il dibattito sull’esatta interpretazione dell’allegoria dantesca rimane aperto. Quelle che presentiamo in queste pagine vanno dunque intese come proposte di interpretazione, suscettibili di discussione e utili, soprattutto, come punto di partenza per ulteriori, personali approfondimenti di studio.


1 Cfr Charles Singleton, La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 495-520.