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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia

UNITÀ C
La letteratura religiosa

UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo

UNITÀ F
La poesia comico-realistica


ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici


Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.

Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950


Giovanni Boccaccio
Decameron I, 2
Abraam giudeo
I12

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Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano1.
1.
La novella di Panfilo fu in parte risa e tutta commendata dalle donne; la quale diligentemente ascoltata e al suo fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò la reina che, una dicendone, l’ordine dello incominciato sollazzo seguisse2. La quale, sì come colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezza ornata, lietamente rispose che volentieri, e cominciò in questa guisa3:
2.
– Mostrato n’ha Panfilo nel suo novellare la benignità di Dio non guardare a’ nostri errori quando da cosa che per noi veder non si possa procedano: e io nel mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesima benignità, sostenendo pazientemente i difetti di coloro li quali d’essa ne deono dare e con l’opere e con le parole vera testimonianza, il contrario operando, di sé argomento d’infallibile verità ne dimostri, acciò che quello che noi crediamo con più fermezza d’animo seguitiamo4.
3.
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran mercatante e buono uomo il quale fu chiamato Giannotto di Civignì5, lealissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia6: e avea singulare amistà con uno ricchissimo uomo giudeo chiamato Abraam, il quale similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo Giannotto, gl’incominciò forte a increscere7 che l’anima d’un così valente e savio e buono uomo per difetto di fede8 andasse a perdizione; e per ciò amichevolmente lo ’ncominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornassesi9 alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente poteva discernere10.
4.
Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato e in quella intendeva e vivere e morire, né cosa sarebbe che mai11 da ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per questo che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole12, mostrandogli così grossamente13, come il più14 i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la giudaica; e come che15 il giudeo fosse nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse o forse parole le quali lo Spirito santo sopra la lingua dell’uomo idiota poneva che sel facessero16, al giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto: ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger17 non si lasciava.
5.
Così come egli pertinace dimorava18, così Giannotto di sollecitarlo non finava19 giammai, tanto che il giudeo, da così continua instanzia20 vinto, disse: «Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano: e io sono disposto a farlo, sì veramente che21 io voglio in prima andare a Roma e quivi vedere colui il quale tu di’ che è vicario di Dio in terra e considerare i suoi modi e i suoi costumi, e similmente de’ suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali, che io possa tra per le tue parole e per quegli22 comprendere che la vostra fede sia miglior che la mia, come tu ti se’ ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho: ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono».
6.
Quando Giannotto intese questo, fu in se stesso oltre modo dolente, tacitamente dicendo: «Perduta ho la fatica la quale ottimamente mi pareva avere impiegata, credendomi costui aver convertito: per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scellerata e lorda de’ cherici, non che egli23 di giudeo si faccia cristiano, ma se egli fosse cristian fatto senza fallo giudeo si ritornerebbe». E a Abraam rivolto disse: «Deh! amico mio, perché vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa come a te sarà d’andare di qui a Roma? senza che24, e per mare e per terra, a un ricco uomo come tu se’ ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea25? E, se forse alcuni dubbii hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha maggior maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o domanderai dichiarire26? Per le quali cose, al mio parere, questa tua andata è di soperchio27. Pensa che tali sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere, e più, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor principale28; e per ciò questa fatica per mio consiglio ti serberai in altra volta a alcuno perdono29, al quale io per avventura ti farò compagnia».
7.
A cui il giudeo rispose: «Io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli30; ma recandoti le molte parole in una31, io son del tutto, se tu vuogli32 che io faccia quello di che tu m’hai cotanto pregato, disposto33 a andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla».
8.
Giannotto, vedendo il voler suo, disse: «E tu va’ con buona ventura34!» e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano come la corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette35.
9.
Il giudeo montò a cavallo, e, come più tosto poté, se n’andò in corte di Roma, dove pervenuto da’ suoi giudei36 fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire a alcuno perché ito vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere del Papa e de’ cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani: e tra che egli s’accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato37, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale ma ancora nella sogdomitica38, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in tanto che la potenza delle meretrici e de’ garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v’era di picciol potere39. Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d’animali bruti, appresso alla lussuria, che a altro gli conobbe apertamente40; e più avanti guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero o a sacrificii o a benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o d’alcuna altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia ‘procureria’ posto nome e alla gulosità ‘substentazioni’, quasi Idio, lasciamo stare il significato di vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi animi non conoscesse e a guisa degli uomini a’ nomi delle cose si debba lasciare ingannare41. Le quali, insieme con molte altre che da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto42 uomo era, parendogli assai aver veduto, propose43 di tornare a Parigi; e così fece.
10.
Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero44; e poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo Padre e de’ cardinali e degli altri cortigiani gli parea45.
11.
Al quale il giudeo prestamente rispose: «Parmene male che Idio dea a quanti sono46: e dicoti così, che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve47, ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori, se piggiori esser possono in alcuno, mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine48. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore e per consequente tutti gli altri si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella. E perciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par discerner lo Spirito santo esser d’essa, sì come di vera e di santa più che alcuna altra, fondamento e sostegno49. Per la qual cosa, dove50 io rigido e duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi: andiamo adunque alla chiesa, e quivi secondo il debito costume della vostra santa fede mi fa’ battezzare».
12.
Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria conclusione a questa51, come lui così udì dire, fu il più contento uomo che giammai fosse: e a Nostra Dama52 di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di là entro che a Abraam dovessero dare il battesimo. Li quali, udendo che esso l’adomandava, prestamente il fecero; e Giannotto il levò del sacro fonte53 e nominollo Giovanni, e appresso a gran valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella nostra fede, la quale egli prestamente apprese: e fu poi buono e valente uomo e di santa vita.





1 Abraam… cristiano: L’ebreo Abraam, incitato (stimolato) <a convertisi> da Giannotto di Civignì, si reca nella corte di Roma; e conosciuta la malvagità del clero, ritorna a Parigi e si converte al cristianesimo. La rubrica sintetizza la vicenda paradossale narrata in questa novella: il protagonista, un mercante ebreo, è convinto a convertirsi non dal buon esempio dei cristiani ma, al contrario, dalla depravazione del clero. L’ambientazione in Francia e la scelta dei mercanti come protagonisti collegano tematicamente questa novella a quella di ser Ciappelletto, che la precede nella raccolta [I11]. Vi è tuttavia anche una netta opposizione rispetto alla novella precedente, perché i mercanti qui rappresentati sono portatori di elevati valori morali.

2 La novella… donne: La novella narrata da Panfilo fu in parte accolta con risate (risa, participio passato usato transitivamente) e <fu> lodata per intero (tutta commendata) dalle donne; dopo che essa fu diligentemente ascoltata , ed essendo giunta al termine (al suo fine essendo venuta), poiché accanto a lui (appresso di lui, riferito a Panfilo) sedeva Neifile, la regina le ordinò che, narrandone una <a sua volta>, desse seguito all’ordine del divertimento iniziato (incominciato sollazzo). All’inizio di ogni novella, nel Decameron, il narratore si sofferma sulla cornice, riferendo le reazioni suscitate dal precedente racconto e passando quindi la parola al nuovo novellatore.

3 La quale… guisa: Ed essa (Neifile), essendo altrettanto (sì come colei che non meno era) dotata (ornata, metafora) di cortesi costumi che di bellezza, rispose lietamente che <l’avrebbe fatto> volentieri, e iniziò in questo modo.

4 Mostrato n’ha… procedano: Panfilo, con il suo racconto (novellare), ci ha dimostrato che la bontà (benignità) di Dio non guarda ai nostri errori quando essi derivino (procedano) da qualcosa che non possa essere vista da (per) noi: e io, nel mio <racconto>, intendo dimostrarvi quanto questa stessa bontà, tollerando pazientemente i peccati (difetti) di coloro i quali ci devono dare vera testimonianza di essa con le opere e con le parole, e invece fanno il contrario (il contrario operando: la perifrasi designa il clero), ci mostri <a proposito> di sé una prova (argomento) di infallibile verità, affinché (acciò che) noi seguiamo con maggiore fermezza d’animo quello in cui crediamo (cioè la fede). Ancora una volta, il narratore dichiara che la novella per oggetto da un lato la bontà divina e, dall’altro, l’indegnità degli uomini, in particolare degli ecclesiastici.

5 Civignì: presumibilmente l’attuale Chauvigny, città francese a circa 25 chilometri da Poitiers.

6 lealissimo… di drapperia: assai leale e onesto (diritto) e <impegnato> nel grande commercio (di gran traffico) di prodotti (opera) di stoffa. Caratteristiche di questo mercante sono da un lato l’onestà e dall’altro il notevole volume d’affari.

7 gl’incominciò… increscere: a lui (Giannotto) cominciò a fare molto dispiacere (forte a increscere).

8 difetto di fede: mancanza della fede <cristiana>.

9 ritornassesi: si convertisse.

10 dove la sua… discernere: mentre (dove) poteva vedere (discernere) che la sua <fede ebraica>, al contrario, perdeva seguaci e si consumava (diminuirsi e venire al niente: i due verbi, retti da «discernere», ricalcano la costruzione latina delle infinitive).

11 né cosa sarebbe che mai: e non avrebbe potuto mai esservi qualcosa.

12 Giannotto non stette… simiglianti parole: Giannotto, nonostante (per) questo, non si astenne (non stette) dal rivolgergli nuovamente (che egli… non gli rimovesse), passati alcuni giorni, parole simili.

13 grossamente: rozzamente.

14 il più: di solito.

15 come che: sebbene.

16 o l’amicizia… sel facessero: o <fosse> a muoverlo (che il movesse) la grande amicizia che nutriva per Giannotto, o <fossero> forse a fare ciò (che il facessero) le parole che lo Spirito Santo poneva sulla lingua di <quell’> uomo ignorante (idiota).

17 volger: convertire.

18 pertinace dimorava: rimaneva ostinato.

19 finava: finiva, forma frequente nei testi del Duecento.

20 instanzia: insistenza.

21 sì veramente che: a patto che.

22 tra per le tue parole e per quegli: in parte per le tue parole e in parte per quei <costumi>.

23 non che egli: non solo è impossibile che egli.

24 senza che: a parte il fatto che.

25 ti dea: ti possa dare.

26 E, se… dichiarire: E, se forse hai <ancora> alcuni dubbi sulla fede che io ti predico (dimostro), in quale luogo si trovano (ha: questa forma, nel senso di c’è, ci sono, è affine al francese e comune nell’uso dell’italiano antico) maggiori esperti ed uomini più sapienti in quella <fede> (maestri e savi uomini in quella), di coloro che sono qui, <tanto> da poterti chiarire (dichiarare) ciò che tu vorrai o domanderai? La sede della principale facoltà teologica era appunto Parigi. Perché recarsi dunque a Roma?

27 di soperchio: superflua. Il ragionamento di Giannotto segue le categorie utilitaristiche proprie dei mercanti.

28 e più: e <sono> tanto più numerosi (e più) e tanto più encomiabili (tanto ancor migliori) in quanto essi vivono vicino al primo fra tutti i pastori (pastor principale, cioè il papa).

29 perdono: pellegrinaggio di penitenza.

30 favelli: dici.

31 recandoti le molte parole in una: riassumendo per te i lunghi discorsi in poche parole.

32 vuogli: vuoi.

33 disposto: intenzionato.

34 con buona ventura: con buona fortuna.

35 e seco… si stette: e fra sé e sé si convinse (seco avvisò) che quello mai si sarebbe fatto cristiano, appena (come) avesse veduto la corte di Roma; ma poiché non aveva nulla da perdere, si astenne (si stette) <dall’insistere>. Giannotto, conoscendo i corrotti costumi del clero, prevede che il viaggio a Roma distoglierà definitivamente Abraam dalla conversione. Calcola però, con praticità da mercante, di non avere nulla da perdere poiché, rimandendo a Parigi, l’amico non si convertirebbe lo stesso.

36 da’ suoi giudei: dagli ebrei come lui.

37 tra ch’egli… fu informato: tra le cose di cui egli si accorse, da uomo molto saggio (avveduto) quale era, e tra le cose di cui (che) inoltre (ancora) fu informato da qualcun <altro>.

38 e non solo… sogdomitica: e non solo in quella eterosessuale, ma anche in quella omosessuale.

39 in tanto che… di picciol potere: al punto che l’influenza delle meretrici e dei ragazzi <che si prostituivano> aveva in quel luogo molto potere (non v’era di picciol potere, litote) nell’ottenere (impetrare) qualunque grande favore (cosa).

40 Oltre… apertamente: Oltre a ciò, egli vide palesemente <che> essi (gli conobbe apertamente) < erano> nella totalità (universalmente: l’avverbio indica la corte papale nella sua interezza) golosi, bevitori, ubriachi e soprattutto (più… che a altro) schiavi del ventre come bestie (animali bruti), oltre che lussuriosi (appresso alla lussuria). La descrizione della corte romana richiama la distinzione che lo storico latino Sallustio compie tra le attività proprie dell’uomo e quelle delle bestie (designando queste ultime come creature «quae natura prona atque ventri oboedientia finxit» [che la natura plasmò prone e obbedienti al ventre]»; De coniuratione Catilinae, I, 1).

41 e più avanti guardando… lasciare ingannare: e, continuando a osservare (più avanti guardando), li vide tutti avari e desiderosi di denari al punto (in tanto) che vendevano e compravano per denaro, alla stessa maniera, il sangue umano – anzi cristiano – e gli uffici divini (divine cose), quali (chenti) che essi fossero, appartenenti a offerte (sacrificii) o a benefici <ecclesiastici>, facendone un commercio più grande (maggior mercatantia) ed avendo più mediatori (sensali) <di quanti ce n’>erano a Parigi per le stoffe (drappi) e per ogni altra merce, avendo messo il nome di “mediazione” (procureria) alla palese simonia, ed alla golosità <il nome> di “alimenti” (sustentazioni), come se (quasi) Dio, a parte (lasciamo stare) il significato delle parole, non riconoscesse l’intenzione degli animi malvagi (pessimi) e si lasciasse ingannare, alla maniera (a guisa) degli uomini, dai nomi delle cose. La simonia è la compravendita dei beni spirituali e degli uffici ecclesiastici. Questa parte della novella risulta particolarmente complessa dal punto di vista sintattico.

42 sobrio e modesto: parco e morigerato, dittologia sinonimica.

43 propose: decise.

44 Al quale… si fecero: E da lui (Al quale) si recò (se ne venne) Giannotto, non appena (come) seppe che era tornato (venuto), disperando completamente (niuna cosa meno sperando, litote) della sua conversione al cristianesimo, e si accolsero reciprocamente con grande gioia (gran festa insieme si fecero).

45 quello che… gli parea: quale opinione avesse del santo Padre, dei cardinali e degli altri cortigiani.

46 Parmene… quanti sono: «Ne ho una pessima opinione, che Dio mandi (dea) <del male> a quanti sono». La parola «male» è un avverbio che dipende da «Parmene»; lo stesso avverbio, sostantivato, funge poi da complemento oggetto del verbo «dea».

47 quivi niuna… mi parve: «lì (quivi) non mi parve di vedere in nessuno che fosse ecclesiastico (chierico) nessuna santità, nessuna devozione, nessuna buona opera o esempio di vita o di altro».

48 ma lussuria… di vedere: «ma mi sembrò di vedere lì (vi), lussuria, avarizia e gola, frode, invidia e superbia, e cose simili e peggiori, se in qualcuno possono esisterne di peggiori, in tale abbondanza (tanta grazia) in tutti, al punto che io considero (ho) quella piuttosto come (per) un’officina (fucina) di operazioni diaboliche che non <di operazioni> divine. La metafora della «fucina», riferita con connotazione negativa alla corte papale, è in Jacopone da Todi, che paragona la corte papale ad una fucina in cui viene raffinato l’oro [C5, v. 19] e in Petrarca, che la definisce «fucina d’inganni» (Canzoniere, CXXXVIII, v. 5).

49 E per ciò… sostegno: E poiché (per ciò che) io vedo che non accade ciò che essi perseguono (non quello avvenire che essi procacciano: la religione cristiana non si estingue, a dispetto dei comportamenti del clero che sembrano mirare a questo fine), anzi (ma) la vostra religione continuamente si diffonde (aumentarsi) e diviene più luminosa (lucida, latinismo) e più chiara, giustamente (meritamente) mi sembra di vedere (discernere) che lo Spirito Santo è di essa (esser d’essa) fondamento e sostegno, in quanto <essa è> (sì come di; la preposizione «di» dipende da «fondamento e sostegno») più vera e più santa di ogni altra <religione>. Questo paradossale argomento a sostegno della fede cristiana non è invenzione di Boccaccio: esso era già presente negli exempla di Etienne de Bourbon (che attribuiva un ragionamento simile all’imperatore Federigo, probabilmente Federico II), da Giovanni Bromyard (che nella Summa praedicantium lo attribuiva a un ebreo anonimo) e nell’Avventuroso Ciciliano, in cui l’argomentazione era attribuita al Saladino.

50 dove: mentre <prima>.

51 aspettava… a questa: si aspettava una conclusione completamente opposta a questa.

52 Nostra Dama: Notre Dame, cattedrale di Parigi.

53 il levò del sacro fonte: gli fece da padrino.


La novella e la cornice
Possiamo esemplificare con questa novella il gioco di “scatole cinesi” che caratterizza dal punto di vista narrativo il Decameron. È possibile distinguere in essa tre diversi piani. All’inizio prende la parola il narratore-autore [A], il quale descrive dall’esterno le attività della brigata. Egli riassume le reazioni dei giovani alla novella precedente e – dopo aver sintetizzato in discorso indiretto le parole della regina Pampinea – introduce la seconda narratrice della giornata [B], ossia Neifile [1]. Quest’ultima esordisce riassumendo la morale della precedente novella, alla quale la propria si collegherà per analogia [2]. Passa quindi a narrare la vicenda, alternando passi in cui è la stessa Neifile a condurre il racconto [2-4, 9-10] ad altri in cui la parola passa ai protagonisti [C], Abraam e Giannotto [5-8, 11]. Sarà nuovamente Neifile [B] a concludere la storia [12]. All’inizio della novella successiva, il narratore-autore [A] “chiuderà” la cornice, facendo cenno alle reazioni della brigata prima di passare la parola al successivo novellatore.

A: Narrazione dell ’autore: commento alla novella precedente; la parola passa a Neifile [1]

B: Narrazione di Neifile [2-4]

C: Primo dialogo tra Abraam e Giannotto [5-8]

B: Ripresa della narrazione di Neifile [9-10]

C: Secondo dialogo tra Abraam e Giannotto [11]

B: Conclusione di Neifile [12]

A: Narrazione dell’autore: commento alla novella di Abraam giudeo [I13, 1]

L’inizio del racconto di Neifile [2-4]
Anche Neifile, come aveva fatto Panfilo all’inizio della precedente novella, dichiara di proporsi un fine edificante: dimostrare la superiorità della fede cristiana facendo paradossalmente leva sull’indegnità dei costumi del clero. Il collegamento con la novella precedentemente narrata da Panfilo è esplicito. Ciò sottolinea con forza la organicità strutturale del libro, che deve essere letto, per coglierne meglio il significato, collegando ogni novella a ciò che precede e a ciò che segue.
Neifile narra la conversione di un mercante, Abraam, di fede ebraica, il quale si vive a Parigi. Costui è indotto a convertirsi al cattolicesimo da Giannotto di Civignì, un «gran mercatante […] lealissimo e diritto e di gran traffico». L’accumulazione aggettivale mette in rilievo l’aggettivo «grande», riferito a Giannotto; tale aggettivo va letto in una doppia accezione: Giannotto è «grande» perché si occupa di grandi traffici; malo è anche per le sue qualità morali fuori dal comune, ossia la lealtà e la giustizia. Egli stringe infatti un rapporto di «singolare amistà» con Abraam, anch’egli mercante «ricchissimo», anch’egli «diritto e leale uomo assai», ma, a differenza di Giannotto, «giudeo» [3]. Il mondo dei mercanti, attraverso queste due figure, viene descritto in modo assai diverso da quanto avveniva nella novella precedente [I11]: i due personaggi ragionano sì secondo la concreta logica dell’utile, ma sono capaci di valori impensabili nel mondo di ser Ciappelletto
Giannotto, temendo la dannazione eterna dell’anima di Abraam, si prodiga affinché questi si converta alla religione cristiana. Essa non solo è «santa e buona», ma sembra «sempre prosperare ed aumentarsi», proprio come se fosse un commercio ben avviato. La questione di fede sembra dunque riconducibile a una logica di mercato, senza che però in questo vi sia nulla di moralmente riprovevole. Ragionando da mercanti leali e onesti, argomenta Giannotto, si dovrà riconoscere che sia meglio convertirsi al cristianesimo per il fatto che questa religione aumenta sempre di diffusione e di valore. Essa è un “affare” redditizio che darà un buon profitto: la salvezza dell’anima, appunto.
L’ottica dell’ebreo però, come sottolinea Neifile, è diversa: egli è «ostinato» e difficilmente si fa convincere dalle parole. Buon mercante anche lui, è abituato a occuparsi di fatti tangibili, certi; e così decide di recarsi a Roma, per toccare con mano ciò che avviene nella sede del vicario di Cristo.

Il dialogo dei due mercanti
[5-8]
Nella parte centrale della novella il discorso indiretto cede il passo al dialogo diretto dei due protagonisti. La narrazione diviene più veloce: Abraam dichiara di voler osservare direttamente la realtà per fondare le sue convinzioni sull’esperienza. Giannotto si crede già sconfitto, perché sa bene che la vita della corte papale, più che l’effetto di convertire un ebreo, potrebbe produrre quello contrario, di togliere la fede a un buon cristiano. Giannotto cerca dunque di dissuadere Abraam usando, ancora una volta, argomenti da mercante: perché sostenere la fatica e la spesa di un viaggio a Roma, quando a Parigi sono disponibili i più grandi teologi? Ma Abraam parte lo stesso per Roma. Giannotto si duole di questa sua decisione, ma non si preoccupa di ostacolarla: dal suo punto di vista non c’è in ogni casp nulla da perdere perché, restando a Parigi, l’amico non si convertirebbe lo stesso.

La corte romana vista da Neifile [9-10]
La narrazione di nuovo torna a Neifile, la quale racconta dell’arrivo di Abraam nella città eterna e degli onori ricevuti dai suoi amici ebrei. La narratrice sottolinea la cautela di Abraam, il quale non svela a nessuno il motivo della sua visita, ma si limita a «riguardare». Il quadro della corte romana descritto da Neifile non si discosta da quello che compare nei passi più polemici di Dante o Petrarca. La narratrice fa ricorso al lessico dell’indignazione, con numerosi avverbi (notevole è il superlativo «disonestissimamente») e una sintassi complessa. Il quadro che essa delinea, ispirandosi in parte allo storico latino Sallustio, è impressionante: presso la corte papale ci si macchia di lussuria, sia “secondo natura” che “contro natura”; tutti sono peccatori; i cortigiani sono «al ventre serventi» come bestie, «gulosi, bevitori, ebriachi», avari e simoniaci. La malizia dei peccatori è tale che essi pretendono quasi di ingannare Dio giocando con le parole e adottando significanti ipocriti ed eufemistici per designare le loro immonde condotte. Il fatto che a parlare sia un narratore esterno come Neifile consente di sottolineare la contrapposizione tra questa realtà degradata e le virtù morali di Abraam: il giudeo, benché teoricamente destinato alla dannazione, si contrappone infatti alla corte degli “eletti”; egli è descritto, in contrasto con ogni pregiudizio, come «sobrio e modesto», mentre la corte pontificia appare come l’Inferno in terra.

La corte romana raccontata da Abraam [11]
A questo punto la narrazione, ceduta al dialogo diretto, assume nuovamente un tono colloquiale. Alla domanda di Giannotto su cosa gli sia parso della corte e dei cortigiani, Abraam risponde con un’imprecazione. La casa del vicario di Cristo, anche nelle sue parole, richiama l’Inferno dantesco: tutti i peggiori peccati trovano in essa dimora («lussuria, avarizia e golosità, fraude, invidia e superbia»). Mentre la descrizione di Neifile era modulata su uno stile ipotattico, Abraam usa un’espressione molto più immediata, con un tono fortemente polemico, che a tratti sembra ricalcare i toni aspri di Jacopone da Todi (come testimonia l’uso del sostantivo «fucina»). Ma proprio in questo contesto così dissacrante si realizza l’inatteso miracolo: dal pessimo esempio morale fornito dai cristiani Abraam trae la conclusione paradossale che la loro religione è la migliore di tutti, perché solo una religione assistita dallo Spirito Santo può prosperare nonostante una tale indegnità dei suoi ministri.

L’epilogo [12]
Il battesimo è l’ultimo atto di questa vicenda. Giannotto accompagna l’amico al fonte battesimale ed indica per lui il nome di Giovanni. A questo punto lo indirizzerà dai teologi: Giovanni diverrà così «buono e valente uomo», riuscirà a colmare la sua carenza nella «santa vita».

Il significato della novella
In definitiva, come si è visto, Abraam applica alle questioni di fede la logica mercantile dell’utile: egli si converte in base alla constatazione che, nonostante tutto ciò che avviene a Roma, la religione cristiana continua a crescere e prosperare e questo è segno della sua superiorità. Ma questa logica mercantile non va confusa in alcun modo con la mercificazione della fede che impera nella corte romana (contro la quale si scagliano infatti prima Neifile e poi Abraam): essa dimostra piuttosto come Boccaccio tenga presente un modello ideale di società borghese capace di coniugare lo sviluppo dei commerci con i valori morali della tradizione cortese.
La decisione di Abraam segna inoltre un confine tra la fede da una parte e, dall’altra, la Chiesa che ha il compito di rappresentarla. Quest’ultima, avendo tradito la propria missione, viene quasi misconosciuta. Ma la fede mantiene il suo spazio come fatto individuale, personale. Nella prospettiva di Abraam non si deve credere sol perché così ci viene insegnato, ma perché l’esperienza e la conoscenza ci convincono della bontà della fede. La conversione dell’ebreo rappresenta dunque la celebrazione dell’uomo che, affidandosi alla propria diretta esperienza, alla ragione, arriva a scegliere il proprio cammino di vita. L’effetto immediato della conversione dell’ebreo ha anche un risvolto umano: essa valorizza il rapporto di amicizia tra i due virtuosi mercanti. Per tutte queste ragioni il personaggio di Abraam – uomo dotato di una profonda dimensione morale e intellettuale, e capace di applicare la riflessione anche alla sfera che tradizionalmente si sottrae alla ragione – sembra preannunciare l’uomo dell’Umanesimo.