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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia

UNITÀ C
La letteratura religiosa

UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo

UNITÀ F
La poesia comico-realistica


ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici


Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.

Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950


Giovanni Boccaccio
Decameron Introduzione, 10-31
L'allegra brigata dei giovani
I10c

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10. A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravolgendo: per che, volendo omai lasciare star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che, stando in questi termini la nostra città, d’abitatori quasi vota, addivenne, sì come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne tutte l’una all’altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà1. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l’ascoltate, nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età ma a troppo più matura larghissime; né ancora dar materia agl’invidiosi, presti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose donne con isconci parlari2. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima, e quella che di più età era, Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagion nomeremo3.
11. Le quali, non già da alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare il dir de’ paternostri, seco delle qualità del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare4.
12. E dopo alcuno spazio, tacendo l’altre, così Pampinea cominciò a parlare: – Donne mie care, voi potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascuno che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini5. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo6? Ognora che io vengo ben raguardando alli nostri modi di questa mattina e ancora a quegli di più altre passate e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io comprendo, e voi similemente il potete comprendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avvedendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per voi a quello di che ciascuna di voi meritamente teme alcun compenso7. Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d’ascoltare se i frati di qua entro, de’ quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne’ nostri abiti, la qualità e la quantità delle nostre miserie8. E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l’autorità delle publiche leggi già condannò a essilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli esecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in strazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni9; né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: ‘I cotali son morti’, e ‘Gli altretali sono per morire’ ; e, se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo10. E se alle nostre case torniamo, non so se a voi così come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile, non so donde in loro nuovamente venuta, spaventarmi11. Per le quali cose, e qui e fuori di qui e in casa mi sembra star male, e tanto più ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi12. E ho sentito e veduto più volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l’appetito le cheggia, e soli e accompagnati, e di dì e di notte, quelle fare che più di diletto lor porgono13; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute14. E se così è, che essere manifestamente si vede, che faccian noi qui? che attendiamo, che sognamo? perché più pigre e lente alla nostra salute che tutto il rimanente de’ cittadini siamo? reputianci noi men care che tutte l’altre? o crediam la nostra vita con più forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e così di niuna cosa curar dobbiamo la quale abbia forza d’offenderla15? Noi erriamo, noi siamo ingannate: che bestialità è la nostra se così crediamo? quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento16. E per ciò, acciò che noi per ischifaltà o per traccutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe, io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo17. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città; ed èvvi, oltre a questo, l’aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore, e minore il numero delle noie18. Per ciò che, quantunque quivi così muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere quanto vi sono più che nella città rade le case e gli abitanti19. E qui d’altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate20. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire21. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopragiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice più a noi l’onestamente andare, che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente22. –
13. L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan già più particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino23.
14. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: – Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare24. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose25: per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo più tosto e con meno onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo26. –
15. Disse allora Elissa: – Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l’ordine loro rare volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi là in diverse brigate senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: e il prender gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sì fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua27. –
16. Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l’età di colui che più giovane era di loro. Ne’ quali né perversità di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor non che spegnere ma raffreddare28. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno; e andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le loro donne, le quali per ventura tutte e tre erano tralle predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro29.
17. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: – Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di prendergli a questo uficio non schiferemo30. –
18. Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: – Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’uno di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona compagnia e onesta dover tenere non che a noi ma a molto più belle e più care che noi non siamo31. Ma, per ciò che assai manifesta cosa è loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo32. –
19. Disse allora Filomena:– Questo non monta niente; là dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Idio e la verità l’arme per me prenderanno. Ora, fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata favoreggiante33. –
20. L’altre, udendo costei così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione e pregassersi che dovesse loro piacere in così fatta andata lor tener compagnia34. Per che senza più parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a alcun di loro per consanguinità era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fé manifesta e pregogli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener loro compagnia si dovessero disporre35. I giovani si credettero primieramente essere beffati, ma, poi che videro che da dovero parlava la donna, rispuosero lietamente sé essere apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire36. E ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato là dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si misero in via; né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente ordinato37.
21. Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare38; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte piene di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne39. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere40.
22. E postisi nella prima giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti: – Donne, il vostro senno più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati; io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare; li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne uscì fuori; e per ciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri mi ritorni e steami nella città tribolata41. –
23. A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose: – Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatto fuggire. Ma, per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io, che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa così bella compagnia è stata fatta, pensando al continuare della nostra letizia, estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale, il quale noi e onoriamo e ubidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente viver disporre42. E acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza, e per conseguente d’una parte e d’altra tratto non possa chi nol pruova invidia avere alcuna, dico che a ciascun per un giorno s’attribuisca e ’1 peso e l’onore; e chi il primo di noi esser debba nella elezion di noi tutti sia; di quelli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei piacerà, che quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga43. –
24. Queste parole sommamente piacquero, e a una voce lei per prima del primo giorno elessero; e Filomena, corsa prestamente ad uno alloro (per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi n’era meritamente incoronato), di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole e apparente; la quale messale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza44.
25. Pampinea, fatta reina, comandò che ogni uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de’ tre giovani e le loro fanti, che eran quatro, davanti chiamarsi; e tacendo ciascun, disse: – Acciò che io prima essemplo dea a tutte voi, per lo quale, di bene in meglio procedendo la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente constituisco Parmeno, famigliare di Dioneo, mio siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sala appartiene45. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno a’ loro ufici impediti, attendere non vi potessero46. Misia mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de’ luoghi dove staremo47. E ciascun generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o vegga, niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori48– .
26. E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè disse: – Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzando si vada, e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi49. –
27. Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme colle belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per uno giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando50. E poi che in quello tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati, trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo ufficio, per ciò che, entrati in sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere51. Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più, chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono52. E levate le tavole, con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottima mente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero53; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare; per che la reina coll’altre donne, insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare54. E in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire: per che, data a tutti la licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e così di fiori piene come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro: per che, spogliatesi, s’andarono a riposare55.
28. Non era di molto spazio sonata nona, che la reina, levatasi tutte l’altre fece levare e similmente i giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire di giorno: e così se n’andarono in un pratello nel quale l’erba era verde e grande né vi poteva d’alcuna parte il sole; e quivi sentendo un soave venticello venire, sì come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere, a’ quali ella disse così56: – Come voi vedete, il sole è alto e il caldo è grande, né altro s’ode che le cicale su per gli ulivi, per che l’andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all’animo gli è più di piacere, diletto pigliare57. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo58. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto; e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia, ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro, faccianlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all’ora del vespro quello faccia che più gli piace59. –
29. Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare60.
30. Adunque, – disse la reina – se questo vi piace, per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado61. –
31. E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue novelle all’altre desse principio; laonde Panfilo, udito il comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò così62.





1 A me medesimo… onestà: A me stesso dispiace (incresce) di andarmi tanto aggirando (ravolgendo) tra tante miserie: per cui, volendo ormai tralasciare (lasciar stare) quella parte di esse che io posso evitare (schifare) senza danni <per il racconto> (acconciamente), dico che, mentre la nostra città era in questa condizione (stando in questi termini la nostra città), quasi spopolata (d’abitatori quasi vota), avvenne, come io in seguito sentii <raccontare> da una persona degna di fiducia (fede), che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, mentre non vi era (non essendovi) quasi nessun altro, dopo avere ascoltato il rito religioso (uditi li divini ufici) in abito da lutto (lugubre), come era conveniente (si richiedea) a una tale situazione (sì fatta stagione), si incontrarono (ritrovarono) sette giovani donne, tutte legate (congiunte) l’una all’altra per amicizia, per vicinanza o per parentela, delle quali nessuna aveva superato i ventott’anni o era minore di diciotto, ciascuna <delle quali> saggia (savia), nobile di sangue, bella d’aspetto (forma), raffinata (ornata) nei costumi e di piacevole onestà.

2 Li nomi… con isconci parlari parlari: Delle quali io direi quali fossero veramente (in propria forma racconterei) i nomi, se non me lo impedisse (da dirlo non mi togliesse) una giusta ragione, che è questa: che io non voglio che a causa delle (per le) cose raccontate da loro, che seguono <nella mia narrazione>, o a causa di quelle <da loro> ascoltate, in futuro (nel tempo avvenire) qualcuna di loro se ne possa vergognare, essendo oggi divenute assai più rigide le regole <di costume> (alquanto ristrette le leggi) <relative> al piacere, <regole> che, per le cause sopra indicate (mostrate), erano estremamente tolleranti (larghissime) oltre che verso la gioventù (non che a la loro età), anche verso <un’età> assai più avanzata (troppo più matura); né inoltre (ancora) <vorrei> dare la possibilità (materia) agli invidiosi, pronti (presti) a criticare severamente (mordere) ogni vita lodevole, di sminuire in nessuna azione (in niuno atto) l’onestà delle donne di buoni costumi (valorose) con discorsi scurrili (isconci parlari).

3 E però… non senza cagion nomeremo: E perciò, affinché (acciò che) si possa comprendere senza difficoltà (confusione) qui di seguito (appresso) ciò che ciascuna <di esse> abbia detto, desidero indicarle (intendo di nominarle) con (per, complemento di mezzo) nomi convenienti, in tutto o in parte, alle qualità di ciascuna: e la prima di esse (delle quali), e quella che era maggiore di età (di più età), la chiameremo Pampinea, la seconda Fiammetta, la terza Filomena, la quarta Emilia, e in seguito chiameremo la (diremo alla) quinta Lauretta e la sesta Neifile, e chiameremo l’ultima Elissa, non senza motivo. I nomi delle giovani sono stati oggetto di numerosi studi. Tra le più accreditate etimologie vi sono le seguenti: “la rigogliosa” (Pampinea), “l’ardente di passione” (Fiammetta), “l’amata” o “l’amante del canto” (Filomena), “la lusinghiera” (Emilia), “la nuova innamorata” (Neifile); per Elissa (nome con cui è tradizionalmente designata Didone) appare chiaro il significato di “amante infelice”; il nome di Lauretta allude evidentemente alla donna amata da Petrarca. È da notare che i nomi di Pampinea, Emilia, Fiammetta ed Elissa erano già presenti nelle opere giovanili di Boccaccio.

4 Le quali… a ragionare: Ed esse, non indotte (non già… tirate) da alcuna intenzione (proponimento), ma riunitesi per caso in una parte della chiesa, postesi a sedere quasi in cerchio, avendo cessato (lasciato stare) dopo molti (più) sospiri di dire delle preghiere (il dir de’ paternostri: la stessa espressione è in Dante, Purgatorio, XXVI, 130), cominciarono a discutere (ragionare) tra sé (seco) <su> molti e diversi aspetti (molte e varie cose) delle condizioni di quei tempi (qualità del tempo).

5 E dopo alcuno spazio… degli uomini: E dopo poco tempo (alcuno spazio), mentre le altre tacevano, Pampinea cominciò a parlare così: «Mie care donne, voi potete avere sentito <dire> molte volte, come è successo a me (così come io), che chi onestamente esercita (usa) il proprio diritto (ragione) non commette ingiustizia (ingiuria) verso nessuno. È diritto naturale di chiunque nasce in questo mondo (ci, lett. qui) tutelare (aiutare), conservare e difendere quanto può la sua vita: e questo <diritto> è riconosciuto (concedesi) al punto (tanto), che alcune volte è già accaduto (addivenuto) che, per difendere (guardar) quella (ossia la propria vita), senza alcuna colpa sono stati uccisi degli uomini». Pampinea sottolinea che la tutela della propria vita è un diritto così universalmente riconosciuto che, in determinate circostanze, diventano non punibili perfino gli omicidi commessi per legittima difesa.

6 E se questo… che noi possiamo: «E se le leggi, che provvedono (nelle sollecitudini delle quali è) all’onesta vita (il ben vivere) di ogni uomo, consentono <perfino> questo (cioè l’uccisione di altri uomini per legittima difesa), quanto più (maggiormente) è lecito (onesto) a noi e a chiunque altro, senza <far> torto a nessuno, prendere quei provvedimenti (rimedii) che possiamo per la conservazione della nostra vita?»

7 Ognora che io vengo… alcun compenso: «Ogni volta che io ripenso attentamente (vengo ben ragardando) ai nostri comportamenti (modi) di questa mattina, e anche a quelli di molte (più) altre <mattine> passate, e <ogni volta che> penso (pensando, al gerundio perché dipende da «vengo») di quale natura e qualità (chenti e quali) siano i nostri discorsi (ragionamenti), io comprendo, e allo stesso modo (similemente) potete comprenderlo voi, che ciascuna di noi ha paura per se stessa (di se medesima dubitare, consueto costrutto con l’infinito alla latina); e di questo non mi meraviglo affatto (niente), ma <invece> mi meraviglio molto (forte), <pur> sapendo (avvedendomi) che ciascuna di noi ha temperamento di donna, che non venga da voi preso (non prendersi per voi) alcun provvedimento (compenso) contro quello (a quello) che ciascuna di voi giustamente (meritamente) teme». Pampinea si meraviglia dunque che le donne, naturalmente e legittimamente preoccupate, non abbiano ancora preso provvedimenti contro tale paura.

8 Noi dimoriamo… miserie: «Noi rimaniamo (dimoriamo) qui, a mio parere, proprio come se (non altramente che se) volessimo o dovessimo essere testimoni (testimonie, forma plurale femminile da “testimonio”) di quanti cadaveri siano qui (ci, riferito alla chiesa) portati (recati) per la sepoltura, o <come se volessimo o dovessimo > ascoltare (d’ascoltare: la preposizione «d’» si spiega perché grammaticalmente l’infinito è retto da «testimonie») se i frati di questa chiesa (qua entro), che sono rimasti in pochi (de’ quali il numero è quasi venuto al niente) celebrino le loro funzioni cantate (cantino i loro ufici) alle ore dovute, o <come se volessimo o dovessimo> esibire (dimostrare) a chiunque ci compare <davanti>, attraverso (ne’) i nostri abiti <da lutto>, la natura (qualità) e la quantità delle nostre sofferenze (miserie)». Pampinea mette in evidenza, attraverso l’ironia, che rimanere in città e trascorrere il tempo in chiesa è cosa inutile e contraria alla «natural ragione» di cui ha prima parlato.

9 E se… danni: «E se usciamo di qui (di quinci), o vediamo i corpi <dei> morti o <dei> malati che vengono trasportati tutt’intorno (trasportarsi da torno), oppure vediamo correre qua e là (per la terra discorrere), compiendo turpi violenze (con dispiacevoli impeti), coloro che per le loro colpe (difetti) l’autorità delle pubbliche leggi già condannò all’esilio, quasi schernendo le leggi (quelle), poiché sanno (per ciò che sentono) <che> gli esecutori di esse <sono> o morti o malati, oppure <vediamo> le persone peggiori (la feccia, metafora) della nostra città, eccitate (riscaldata, al singolare perché concordato con «feccia») dal nostro sangue, farsi chiamare becchini e andare cavalcando e scorrazzando (discorrendo) per ogni luogo (per tutto), con nostro strazio, deridendo (rimproverandoci) le nostre disgrazie (danni) con canzoni immorali (disoneste)».

10 né altra… udiremmo: «né udiamo qui (ci) <dire> altro che “Questi (I cotali) sono morti” e “Questi altri (Gli altretali) stanno per morire”; e, se ci fosse chi li facesse (chi fargli), dappertutto udremmo pianti di dolore».

11 E se alle nostre case… spaventarmi: «E se torniamo alle nostre case, non so se a voi succede (adiviene) come a me: io, non trovando in quella <casa>, della numerosa servitù (di molta famiglia), nessun’altra persona se non la mia domestica (fante), impaurisco e mi sento quasi arricciare tutti i capelli addosso e mi sembra, dovunque io vada o mi trovi (dimoro) in essa (per quella, sempre riferito alla casa), di vedere le anime (ombre) di coloro che sono morti (trapassati), e non con quei visi che io ero solita <vedere>, ma <li vedo> spaventarmi con un aspetto (vista) orribile, non so in che modo (donde) stranamente acquisito da loro (in loro nuovamente venuta, riferito a «vista»)».

12 Per le quali cose… altri che noi: «Per cui mi sembra di star male sia (e) qui (in chiesa), sia fuori di qui (in strada), sia in casa, e tanto più ancora <mi sembra di star male> in quanto mi pare (egli mi pare: il pronome «egli» è usato come soggetto del verbo impersonale «parere», secondo una costruzione analoga a quella francese) che, a parte noi (altri che noi) qui (ci, ossia in città) non sia rimasta nessun’altra persona che abbia qualche possibilità economica (polso) e <un luogo fuori dalla città> dove possa andare <a rifugiarsi>». Pampinea osserva che in città, a parte appunto le donne presenti, sono rimasti solo coloro che non hanno alternative.

13 E ho sentito… porgono: «Ed ho sentito e visto più volte quelli <che hanno possibilità e luogo dove rifugiarsi> (quegli cotali), se ancora ce ne sono alcuni, fare quelle cose che danno loro maggior diletto, senza distinguere ciò che è onesto da ciò che è disonesto, purché il loro istinto le chieda (solo che l’appetito le cheggia), sia soli che in compagnia, sia di giorno che di notte».

14 e non che… dissolute: «e non soltanto (non che) i laici (le solute persone, ossia le persone sciolte da vincoli religiosi), ma anche i monaci (le racchiuse ne’ monisteri, riferito a «persone»), inducendosi (faccendosi) a credere che ciò convenga loro e sia sconveniente (si disdica) solo agli altri, rotte le leggi dell’obbedienza (alla regola monastica), essendosi dati ai piaceri carnali, ritenendo (avvisando) di scampare <al pericolo> in tal modo (guisa), sono divenuti lascivi e dissoluti». Si noti la figura etimologica che collega «solute» e «dissolute», participi con funzione attributiva collocati all’inizio e alla fine del periodo.

15 E se così è… d’offenderla?: «E se le cose stanno così (se così è), come (che) evidentemente (manifestamente) si vede che stanno (essere, infinito retto da «si vede», segue il consueto costrutto latineggiante), cosa facciamo noi qui? cosa aspettiamo? cosa immaginiamo (sognamo)? <restiamo qui> perché siamo più pigre e meno attente (più lente) alla nostra salute di (che) tutto il resto (rimanente) dei cittadini? ci consideriamo (reputianci) noi meno importanti (care) di tutte le altre? o crediamo che la nostra vita sia legata al nostro corpo con catene più forti di quelle <con cui> è (sia) <legata al corpo> quella degli altri, e <pensiamo che> di conseguenza (così) non dobbiamo preoccuparci (curar) di nessuna (niuna) cosa che abbia la capacità (forza) di metterla in pericolo (offenderla)»?

16 Noi erriamo… apertissimo argomento: «Noi sbagliamo, noi siamo ingannate: che stoltezza (bestialità) è la nostra se pensiamo così? tutte le volte che (quante volte) noi ci vorremo ricordare di quale natura e qualità (chenti e quali) siano stati i giovani e le donne uccisi (vinte, al femminile perché concordato con il sostantivo più vicino, «donne») da questa crudele pestilenza, noi ne vedremo chiarissima dimostrazione (apertissimo argomento)».

17 E per ciò… prendessimo: «E dunque, affinché (acciò che) noi per sdegnosità (ischifaltà) o per trascuratezza (traccutaggine, francesismo) non cadiamo (cadessimo) in quel <pericolo> a cui noi forse (per avventura) potremmo scampare in qualche modo (per alcuna maniera), purché volessimo (volendo), non so se a voi sembrerà <opportuno> quello che a me parrebbe <opportuno>: io giudicherei cosa molto buona (ottimamente fatto) che noi, nelle nostre condizioni (sì come siamo), così come molti prima di noi (innanzi a noi) hanno fatto e fanno, partissimo (uscissimo) da questa città (di questa terra), e fuggendo come la morte i disonesti esempi degli altri, ce ne andassimo a stare onestamente nei nostri poderi (luoghi) in campagna (contado), <poderi> che tutte possediamo in abbondanza (de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, dativo di possesso esemplato sul latino), e <giudicherei cosa molto buona che> lì (quivi, avverbio di luogo che in questo passo indicherà sempre la campagna, in contrapposizione alla città indicata con «qui») godessimo (prendessimo) quel divertimento (festa), quell’allegria, quel piacere che noi potessimo <godere>, senza trapassare in alcuna azione il limite (segno) della ragione».

18 Quivi… delle noie: «In quel luogo (Quivi) si sentono cantare gli uccellini, si vedono verdeggiare le colline e le pianure, e <si vedono> i campi coperti di messi (biade) ondeggiare non diversamente (altramenti) dal (che il) mare, e <si vedono> moltissime (ben mille) specie (maniere) di alberi, e <si vede> in modo più aperto <che in città> il cielo, il quale, benché (ancora che) sia con noi (ne sia) adirato (crucciato), non per questo ci nega le sue bellezze eterne, le quali sono molto più belle a vedersi (a riguardare) delle mura vuote della nostra città; e vi è (èvvi) inoltre un’aria assai più fresca, e vi è la più grande quantità (la copia maggiore) di quelle cose che in questi tempi sono necessarie alla vita, e <vi è> minore il numero delle cose spiacevoli (noie)». Nella descrizione del luogo, Pampinea utilizza il classico topos letterario del locus amoenus, che contrappone la vita felice della campagna a quella affannosa della città.

19 Per ciò che… gli abitanti: «Poiché, sebbene lì (quivi) muoiano i contadini (lavoratori) come fanno qui <in città> i cittadini, il dispiacere è tanto meno grande quanto più sono rari (rade, al femminile perché concordato con il sostantivo più vicino, «case»), rispetto alla città, le case e gli abitanti».

20 E qui d’altra parte… n’hanno lasciate: «E d’altra parte, se capisco bene (se ben veggio), noi qui <in città> non abbandoniamo nessuno (persona), anzi in verità ci (ne) possiamo dire molto più propriamente (molto più tosto) abbandonate: poiché i nostri <concittadini e familiari>, o morendo o fuggendo dalla morte, ci hanno lasciate da sole in tanta sofferenza (afflizione), quasi come se non appartenessimo a loro».

21 Niuna… avvenire: «Nessun biasimo (riprensione) dunque può colpirci (cadere) nel mettere in pratica (seguire) tale progetto (consiglio); non mettendolo in pratica potrebbe<ro> giungere dolore e noia, e forse la morte».

22 E per ciò… disonestamente: «E perciò, appena vorrete (quando vi paia), prendendo le nostre domestiche (fanti) e facendoci accompagnare (seguitare) <da loro> con i bagagli che ci servono (le cose oportune), credo che sia cosa giusta e necessaria (credo che sia ben fatto a dover fare) se godiamo (prendendo, gerundio con valore condizionale), oggi in questo luogo <di campagna> e domani in quell’<altro>, quell’allegria e festa che questa situazione (tempo) può concedere (porgere); e <credo che sia cosa giusta e necessaria> continuare a vivere (dimorare) in questo modo (in tal guisa) <fin> tanto che noi vediamo, se non siamo prima raggiunte dalla morte, quale conclusione (fine) il cielo prepari (riserbi) a questa situazione (queste cose). E ricordatevi che il partire (andare) onestamente non si disdice a noi più di quanto si disdica (faccia) a gran parte delle altre <donne> il rimanere (lo star) <in città> disonestamente.

23 L’altre donne… in cammino: Le altre donne, udita Pampinea, non soltanto lodarono il suo progetto, ma, <essendo> desiderose di metterlo in pratica (seguitarlo), avevano già cominciato a discutere tra sé più in dettaglio (più particularmente) del modo <di metterlo in pratica>, come se (quasi), alzandosi da sedere di lì (quindi), dovessero subito (a mano a mano) mettersi (entrare) in cammino.

24 Ma Filomena… regolare: Ma Filomena, la quale era molto saggia (discretissima), disse: «Donne, sebbene ciò che afferma (ragiona) Pampinea sia da condividere (ottimamente detto), non perciò bisogna correre a metterlo in pratica così, come sembra (mostra) che voi vogliate fare. Ricordatevi (Ricordivi) che noi siamo tutte donne, e non c’è nessuna <di noi> (e non ce n’ha niuna) così giovane da non poter sapere bene (che non possa ben conoscere) quanto (come) le donne si lascino guidare dalla ragione (sieno ragionate) <quando sono> tra di loro (insieme) e <quanto> si sappiano dare delle regole (regolare) senza l’aiuto (provedenza) di qualche uomo». Queste frasi vanno intese in senso negativo: Filomena sostiene che le donne non possono vivere da sole e senza la presenza degli uomini.

25 Noi siamo… paurose: «Noi siamo volubili (mobili), litigiose (riottose), sospettose, pusillanimi e paurose». Filomena fa propria la proverbiale rappresentazione della donna come essere troppo soggetto alle passioni ed alle emozioni, quindi incapace di autodeterminarsi.

26 per le quali cose… che cominciamo: «per cui io temo (dubito) fortemente, se noi non prendiamo nessun’altra guida diversa dalla nostra, che questa compagnia si sciolga (non si dissolva: l’avverbio di negazione ricalca la costruzione delle frasi latine in dipendenza dei verba timendi) con troppo anticipo e con minore nostro onore di quanto sarebbe necessario (che non ci bisognerebbe); e perciò è bene se provvediamo a questo (è buono a provederci) prima (avanti) che cominciamo».

27 Disse allora Elissa… non ne segua: Allora Elissa disse: «Certamente gli uomini comandano sulle donne (sono delle femine capo) e senza il loro comando raramente qualche nostra opera arriva (riesce) a una conclusione degna di lode: ma come possiamo noi trovare (avere) questi uomini? Ciascuna di noi sa che la maggior parte dei suoi <parenti> sono morti, e gli altri che sono rimasti vivi (che vivi rimasi sono) vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire (cioè il contagio) chi qua e chi là, in diversi gruppi (brigate), senza che noi sappiamo (senza saper noi) dove; e non sarebbe (saria) cosa onorevole (convenevole) portare con sé (prendere) degli estranei (strani); per cui, se vogliamo aver cura (andar dietro) della (alla) nostra salute, è necessario (si convien) trovare una maniera di organizzarci (ordinarci) in modo tale (sì fattamente), che mentre (dove) andiamo <in campagna> per piacere (diletto) e per riposo, non ne consegua<no> (segua) dispiacere (noia) e discordia (scandalo)».

28 Mentre tralle donne… ma raffreddare: Mentre tra le donne avevano luogo tali discorsi (erano così fattti ragionamenti), ecco all’improvviso (e ecco: la congiunzione «e», che sembra annunciare una coordinata, introduce in realtà la proposizione che regge la precedente temporale) entrare nella chiesa tre <uomini> giovani, non però (per ciò) tanto che l’età di colui che tra loro era il più giovane fosse inferiore a venticinque anni. Nei quali né le avversità di quel periodo (perversità di tempo) né la perdita di amici o di parenti né la paura per (di) se stessi aveva potuto, non solo (non che) spegnere, ma <nemmeno> raffreddare l’amore.

29 De’ quali… d’alcuni di loro: Dei quali uno era chiamato Panfilo, il secondo Filostrato e l’ultimo Dioneo, <e> ciascuno <era> molto piacevole ed educato (costumato); e andavano cercando come loro massimo conforto (per loro somma consolazione), in una tale calamità (in tanta turbazione di cose) di vedere le loro donne, le quali per caso (per ventura) erano tutte e tre tra le sette di cui prima si è detto, a parte il fatto che (come che) alcune delle altre erano (ne fossero) strette (congiunte) parenti di alcuni di loro. Anche in questo caso, come si è già visto per le donne, gli pseudonimi hanno valore allusivo: Panfilo (“tutto amore”) è l’amante felice al contrario di Filostrato (“vinto d’amore”). Dioneo è invece “il venereo” (Dione era il padre della dea Venere): il suo nome allude a una gaudente sensualità. I nomi di Panfilo e Filostrato sono presenti nelle opere giovanili di Boccaccio.

30 Né prima esse… non schiferemo: Ed esse non furono viste da loro (Né… agli occhi corsero di costoro) prima che questi fossero visti da esse; per cui Pampinea sorridendo cominciò allora <a dire>: «Ecco che la fortuna è favorevole ai nostri propositi (cominciamenti), e ci ha (hacci) fatto arrivare (posti) davanti giovani saggi (discreti) e di valore (valorosi), che ci faranno volentieri da guida e da servitori, se non disdegneremo (schiferemo) di prenderli con questo compito (oficio)».

31 Neifile allora… che noi non siamo: Allora Neifile, divenuta tutta rossa (vermiglia) in viso per <la> vergogna, poiché (per ciò che) era una di quelle che erano amate (era amata: la proposizione relativa ha il verbo al singolare perché si riferisce al pronome «una») da uno dei giovani, disse: «Pampinea, per Dio, stai attenta (guarda) <a> quello che tu dici (dichi, forma popolare del congiuntivo presente). Io so benissimo (conosco assai apertamente) che non si può dire (dir potersi) altro che bene (niuna altra cosa che tutta buona) di ciascuno (di qualunque s’è l’uno) di costoro, e li considero (credogli) adeguati (sofficienti) a un compito di gran lunga più difficile (a troppo maggior cosa) di quanto non sia questo (che questa non è); e allo stesso modo ritengo (similmente avviso) che essi (loro) sono in grado di tenere (dover tenere) buona e onesta compagnia, non solo a noi, ma <anche> a <donne> molto più belle e importanti (care) di quanto noi siamo».

32 Ma, per ciò che… se gli meniamo: «Ma, poiché è cosa assai nota (assai manifesta) che essi siano (loro essere) innamorati di alcune <di noi> che sono qui (che qui ne sono), temo che, se li conduciamo (meniamo) con noi, ne segua per noi (non ce ne segua, consueto costrutto esemplato sui verba timendi latini) infamia e biasimo (riprensione), senza colpa nostra o loro».

33 Disse allora Filomena… favoreggiante: Allora Filomena disse: «Questo non importa (monta) niente; a condizione che (la dove) io viva onestamente e <che> la coscienza non mi rimproveri (rimorda) di nessuna colpa (alcuna cosa), parli <pure> contro di me (in contrario) chi vuole: Dio e la verità mi difenderanno (l’arme per me prenderanno, metafora). Piuttosto (Ora), magari (pur) fossero essi già disposti a venire, poiché <in questo caso> veramente, come ha detto Pampinea, potremmo dire che la fortuna sia favorevole (essere… favoreggiante) alla nostra partenza (andata).

34 L’altre… lor tener compagnia: Le altre, sentendo lei parlare in questo modo (così fattamente), non soltanto non obiettarono (si tacquero), ma con volontà unanime (consentimento concorde) chiesero tutte che essi (i tre giovani) fossero chiamati e che si spiegasse ad essi la loro intenzione, e che li si pregasse (pregassersi, infinito retto da «dissero che») che fosse per essi cosa gradita (che dovesse lor piacere) tenere compagnia ad esse in tale viaggio (così fatta andata). Si noti il ripetersi, per quattro volte, della parola «loro», con funzione a volte di pronome personale e a volte di aggettivo possessivo, con riferimento a volte ai giovani e a volte alle donne.

35 Per che senza più parole… dovessero disporre: Per cui, senza più parole, dopo essersi alzata in piedi, Pampinea, la quale era congiunta per parentela (consanguinità) con qualcuno di loro, si avvicinò (si fece) verso <di> loro che stavano fermi a guardarle e, dopo averli salutati con viso lieto, spiegò (fé manifesta) ad essi la loro decisione (disposizione) e li pregò a nome (per parte) di tutte che decidessero (si dovessero disporre) di accompagnarle con animo puro e fraterno. Come nel periodo precedente, ricorre ancora per quattro volte la parola «loro».

36 I giovani si credettero… in sul partire: I giovani credettero dapprima di essere vittime di una beffa, ma, dopo che capirono (videro) che la donna parlava seriamente (da dovero), risposero lietamente di essere pronti (sé essere apparecchiati, consueto costrutto infinitivo alla latina); e senza rallentare le operazioni (senza dare alcuno indugio all’opera), prima (anzi) che si allontanassero da lì (quindi, avverbio di moto da luogo riferito alla chiesa), disposero (diedono ordine a) ciò che era necessario fare (che a fare avessono) per la partenza.

37 E ordinatamente… primieramente ordinato: E avendo fatto predisporre (apparecchiare) con ordine ogni cosa necessaria, e dopo avere inviato (mandato) in anticipo (prima) <qualcuno> al luogo in cui intendevano andare, la mattina seguente, cioè il mercoledì, all’alba (in su lo schiarir del giorno), le donne con alcune loro domestiche (alquante delle lor fanti) e i tre giovani con tre loro servitori (famigliari), usciti dalla città, si misero in cammino (in via); né si erano allontanati (si dilungarono) da essa (cioè dalla città) più di due miglia scarse (piccole; il miglio toscano equivaleva a circa 1650 metri), quando (che) essi giunsero al luogo da loro in precedenza scelto (primieramente ordinato).

38 Era il detto luogo… a riguardare: Il suddetto luogo si trovava sopra un piccolo monte (montagnetta), da ogni parte piuttosto distante <rispetto> alle nostre strade, <luogo e collina> piacevoli da vedersi (a riguardare) <a causa> di vari alberi (arbuscelli) e piante, tutte ricche di verdi fronde.

39 in sul colmo… oneste donne: sulla sommità della quale (riferito a «montagnetta») c’era un palazzo con nel mezzo un cortile bello e grande, con logge, con sale e con camere, tutte bellissime (bellissima, come gli aggettivi che seguono, è al singolare perché concordato con «ciascuna») ciascuna nel suo genere (ciascuna verso di sé), impreziosite (raguardevole) e ornate di piacevoli dipinti (liete dipinture), con intorno praticelli e meravigliosi giardini, e con pozzi d’acqua freschissima e con cantine (volte: il termine indica l’architettura degli scantinati, che erano appunto a volta) di vini pregiati: cose più adatte (atte) a bevitori esigenti (curiosi) che a donne sobrie e oneste.

40 Il quale… non poco piacere: Il quale <palazzo> (complemento oggetto) la brigata che arrivava (vegnente), con suo grande (non poco, litote) piacere, trovò tutto spazzato, e <con> i letti fatti nelle camere, e <con> ogni parte (cosa) piena di fiori, quali si potevano avere in <quella> stagione, e tappezzata (giuncata, francesismo) di stuoie di giunco (giunchi, metonimia).

41 E postisi… città tribolata: Ed essendosi <tutti> messi a sedere appena arrivati (nella prima giunta), Dioneo, il quale era un giovane piacevole e pieno di spirito (motti) più di (oltre a) ogni altro, disse: «Donne, la vostra saggezza (senno) più che la nostra accortezza (avvedimento) ci ha guidati qui; io non so quello che voi intendete fare delle vostre preoccupazioni (pensieri): io ho lasciato le mie dentro la porta della città quando (allora che) io insieme a voi poco fa ne sono uscito: e perciò o voi siete disposte (vi disponete) a divertirvi (sollazzare) e a ridere e a cantare insieme a me – quel tanto, voglio dire, che si conviene (s’appartiene) alla vostra dignità – o voi mi date permesso (mi licenziate) che io torni ai miei pensieri e rimanga (steami) nella città sofferente (tribolata)». Emerge da questa battuta l’allegra irruenza del carattere sensuale di Dioneo, che invita subito la brigata ad abbandonare tutte le pene e le preoccupazioni per godere allegramente della vita, purché beninteso non si oltrepassino i limiti del decoro.

42 A cui Pampinea… viver disporre: E <rivolta> a lui (A cui) Pampinea, non altrimenti (non d’altra maniera) che se allo stesso modo <di Dioneo> (similmente) avesse cacciato da sé tutti i suoi <pensieri>, rispose lieta: «Dioneo, dici molto bene: vogliamo (si vuole) vivere festosamente, né altra causa <che questo desiderio> ci ha fatte fuggire dalle sofferenze (tristizie) <della città>. Ma, poiché le cose che sono prive di misura (senza modo, latinismo) non possono durare a lungo, io, che fui colei che iniziò (cominciatrice de’) i discorsi (ragionamenti) dai quali è nata (è stata fatta) questa compagnia così bella, pensando alla continuazione della nostra gioia, ritengo (estimo) che sia necessario stabilire (di necessità sia convenire) che ci sia tra di noi un capo (alcuno principale), che noi onoriamo e <al quale> ubbidiamo come <ad un> superiore (maggiore), che abbia il compito (nel quale ogni pensiero stea) di doverci disporre a vivere in allegria (lietamente viver).

43 E acciò che… disponga: «E affinché ciascuno provi il peso della responsabilità (sollecitudine) insieme con il piacere del comando (maggioranza) e, di conseguenza, <essendo tutti> tirati (tratto, al singolare perché concorda con «ciascun») da una parte e dell’altra (cioè essendo tutti partecipi sia della responsabilità che del comando), chi non riveste <questo ruolo> (chi nol pruova) non possa sentire nessuna invidia, propongo (dico) che a ciascuno si attribuisca<no> per un giorno sia la responsabilità (il peso) sia l’onore; e tutti insieme scegliamo (nella elezion di noi tutti sia) chi debba essere il primo di noi <ad assumere l’incarico>; e <per quanto riguarda> quelli che seguiranno, quando si avvicinerà l’ora del tramonto, <si sceglierà> quello o quella che piacerà a colui o a colei che in quel giorno avrà avuto il comando (signoria); e costui (questo cotale), secondo la sua volontà (arbitrio), per il tempo (del tempo) che deve durare il suo comando (la sua signoria dee bastare), dia ordini e stabilisca (disponga) il luogo ed il modo in cui dobbiamo vivere». Mentre dunque per la prima giornata il reggitore dovrà essere eletto da tutti, nelle giornate successive sarà il reggitore in carica a nominare il proprio successore, rispettando naturalmente il principio della rotazione.

44 Queste parole… maggioranza: Queste parole piacquero moltissimo (sommamente), e all’unanimità (a una voce) scelsero lei (Pampinea) come reggitrice (prima) del primo giorno; e Filomena, corsa rapidamente verso un alloro – poiché più volte aveva sentito dire (ragionare) di quanto onore erano degne le fronde di esso, e quanto rendevano degno di onore chi ne era meritatamente incoronato – avendo colto alcuni rami di quello, fece con essi per lei (ne le fece) una ghirlanda decorosa e appariscente; la quale <ghirlanda>, messale sopra la testa, fu poi finché (mentre) durò il loro stare insieme (compagnia) segno visibile (manifesto) per ciascuno della regale signoria e del potere (maggioranza).

45 Pampinea… della sala apartiene: Pampinea, essendo stata incoronata (fatta) regina, comandò che ognuno (ogn’uom) tacesse, avendo già fatto chiamare a sé (chiamarsi) i servitori (famigliari) dei tre giovani e le domestiche (fanti) delle donne (loro), che erano quattro; e mentre ognuno stava in silenzio (tacendo ciascun), disse: «Affinché io per prima dia a tutte voi l’esempio in base al quale (per lo quale) la nostra compagnia, procedendo di bene in meglio, possa continuare a vivere (viva e duri, endiadi) con ordine, con piacere e senza alcuna vergogna fino a quando ci sarà gradito (quanto a grado ne fia), io per cominciare (primieramente) nomino (constituisco) mio maggiordomo (siniscalco) Parmeno, servitore di Dioneo, e a lui affido (commetto) la cura e la responsabilità (sollecitudine) di tutta nostra la servitù (famiglia) e <gli affido> ciò che riguarda il (appartiene al) servizio della mensa (sala)». I servi hanno nomi greci che corrispondono a quelli di alcuni personaggi della commedia latina di Plauto e Terenzio.

46 Sirisco… vi potessero: Voglio che Sirisco, servitore di Panfilo, sia nostro incaricato delle spese (spenditore) e tesoriere, ed esegua (seguiti) le disposizioni di Parmeno. Tindaro si occupi del (attenda al) servizio di Filostrato e degli altri due nelle loro camere, qualora non se ne potessero occupare (attender non vi potessero) gli altri (Parmeno e Sirisco), <perché> affaccendati (impediti) intorno ai loro compiti».

47 Misia… dove staremo: «Misia, mia domestica (fante), e Licisca, <domestica> di Filomena, staranno continuamente (continue, aggettivo con funzione avverbiale) in cucina e prepareranno accuratamente quei cibi che saranno loro comandati da (per) Parmeno. Chimera, <domestica> di Lauretta, e Stratilia, <domestica> di Fiammetta, vogliamo che siano intente a tenere in ordine le (al governo delle) camere delle donne e alla pulizia (nettezza) dei luoghi dove staremo».

48 E ciascun… di fuori: «E vogliamo e ordiniamo (plurale di maestà) che chiunque di loro (ciascun generalmente), se gli sta a cuore (per quanto egli avrà cara) la nostra grazia, ovunque (dove che) egli vada, da qualunque luogo (onde che) egli ritorni, qualunque cosa (che che) egli ascolti e veda, si astenga (si guardi) dal portarci (ci rechi, retto da «si guardi») dall’esterno (di fuori) alcuna notizia (novella), se non lieta».

49 E questi ordini… si mangi: E dati velocemente (sommariamente) questi ordini, che furono approvati (commendati) da tutti, alzatasi in piedi lieta, disse: «Qui vi sono giardini, qui vi sono praticelli, qui <vi sono> altri luoghi molto piacevoli, attraverso i (per li) quali ciascuno può andare (si vada, congiuntivo esortativo) a divertirsi (sollazzando) coma a lui piace e non appena (come) suonano le nove del mattino (terza) tutti si ritrovino qui, affinché si mangi con il fresco». Il tempo si computava dividendo la giornata in quattro parti, dall’alba al tramonto. Calcolando approssimativamente che il sole sorgeva alle sei del mattino, la terza ora corrispondeva circa alle nove, la sesta a mezzogiorno, la nona alle quindici, il vespro alle diciotto. Ma la corrispondenza tra questa scansione del tempo e la nostra varia con l’avvicendarsi delle stagioni, poiché il sole non sorge sempre alla stessa ora.

50 Licenziata… cantando: Lasciata dunque libera (Licenziata) dalla nuova regina l’allegra brigata, i giovani, con passo lento, parlando di cose piacevoli, si inoltrarono (misero) per un giardino insieme alle belle donne, facendo per sé belle ghirlande di varie fronde e cantando canzoni d’amore (amorosamente cantando).

51 data… mani: E dopo che furono rimasti (dimorati) in quello (cioè nel giardino) per il tempo che era stato concesso dalla regina (quanto di spazio dalla reina avuto aveano), tornati a casa, trovarono che Parmeno aveva dato accuratamente (studiosamente aver dato) inizio al suo lavoro, poiché, entrati in una sala al pian terreno, videro le tavole imbandite (messe) con tovaglie bianchissime e con bicchieri che sembravano d’argento (ariento), e <videro> ogni cosa coperta di fiori di ginestra; per cui, dopo aver lavato le mani con l’acqua (data l’acqua alle mani, forma ricalcata sull’ablativo assoluto latino), come volle la regina, secondo le indicazioni (giudicio) di Parmeno, andarono tutti a sedere. Nei banchetti medievali si usavano di solito bicchieri di stagno, peltro e vetro: questi bicchieri che «d’ariento parevano» sono indice di raffinatezza ed eleganza. Le mani si lavavano con l’acqua, oltre che prima del pasto, anche tra una portata e l’altra, perché non si faceva all’epoca uso di forchette.

52 Le vivande… mangiarono: Le pietanze furono delicatamente cucinate (fatte vennero) e furono preparati (presti) vini finissimi; e senz’altro indugio (senza più), in silenzio (chetamente), i tre servitori (famigliari) imbandirono le tavole. Ed essendo ciascuno rallegrato da queste cose (Dalle quali cose), poiché erano belle e ben disposte, mangiarono con discorsi (motti) piacevoli e festosamente (con festa). Si parla di «tavole» al plurale perché nel Trecento, nei pranzi con numerosi commensali, si utilizzavano più tavoli separati, di dimensioni ridotte e montati su cavalletti.

53 E levate le tavole… venissero: E sparecchiate (levate) le tavole, poiché (con ciò fosse cosa che) tutte le donne, e allo stesso modo i giovani, sapevano danzare in cerchio (carolar sapessero) e parte di loro sapeva suonare e cantare benissimo, la regina comandò che fossero portati (venissero) gli strumenti musicali. La “carola” (dal francese carole) era una danza in cui i ballerini si prendevano per mano e ballavano in cerchio.

54 e per comandamento … a cantare: e per comandamento di lei (Pampinea), <avendo> Dioneo preso un liuto e Fiammetta una viola, cominciarono dolcemente a suonare una <musica da> danza; per cui (per che) la regina con le altre donne, insieme con <gli altri> due giovani (Filostrato e Panfilo), cominciata (presa) una danza in cerchio, con passo lento, mandati i servitori a mangiare, cominciarono a danzare; e finita quella <musica da danza> cominciarono a cantare canzoni gradevoli (vaghette) e liete.

55 E in questa maniera… a riposare: E con questo modo di passare il tempo (maniera) andarono avanti fin tanto che alla regina parve il momento di andare a dormire: per cui, dato a tutti il permesso, i tre giovani se ne andarono alle loro camere, separate da quelle delle donne, <camere> che trovarono con i letti ben fatti e piene di fiori, così come la sala <da pranzo>, e allo stesso modo (simigliantemente) fecero le loro donne; per cui, spogliatesi, si andarono a riposare.

56 Non era… disse così: Non erano da molto tempo (spazio) passate le tre del pomeriggio (sonata nona) quando (che) la regina, alzatasi, fece alzare tutte le altre, e allo stesso modo <fece alzare> i giovani, affermando che dormire troppo durante il giorno era nocivo: e così se ne andarono in un prato, nel quale l’erba era verde e alta (grande), né vi poteva <entrare> da alcuna parte il sole; e lì, sentendo arrivare un soave venticello, come volle la loro regina, tutti si posero a sedere in cerchio sopra l’erba verde, e a loro (a’ quali) essa disse così. La situazione idilliaca qui descritta richiama quella del sonetto Intorn’ad una fonte, in un pratello [I1].

57 Come voi vedete… diletto pigliare: «Come voi vedete, il sole è alto e fa molto caldo, e non si sente altro che le cicale in alto tra gli ulivi, per cui andare adesso (al presente) in qualche <altro> posto sarebbe sicuramente una sciocchezza. Qui si sta bene e al fresco (è bello e fresco stare), e ci sono (hacci), come voi vedete, sia tavole da gioco sia scacchiere, e ognuno può divertirsi (diletto pigliare) secondo ciò che più piace al suo animo». La descrizione di questi possibili modi di trascorrere il tempo prelude alla proposta alternativa di Pampinea, che costituirà poi la vera e propria cornice del Decameron.

58 Ma se in questo… trapasseremo: «Ma se in questo voleste seguire (si seguisse) il mio parere, noi trascorreremo (trapasseremo) questa calda parte del giorno non giocando, <attività> in cui è necessario (conviene) che l’animo di una delle parti (cioè di colui che perde) provi dispiacere (si turbi), senza troppo divertimento dell’altra <parte> o di chi assiste, ma raccontando delle novelle, il che, mentre uno narra (dicendo uno), può recare piacere a tutta la compagnia che ascolta».

59 Voi non avrete… più gli piace: «Ciascuno di voi non avrà finito di raccontare (compiuta di dire) una sua breve novella, che il sole sarà tramontato (fia declinato) e il caldo diminuito (mancato), e potremo andare dove più vi piaccia (più a grado vi fia) a fare cose piacevoli (prendendo diletto); e perciò, qualora (quando) ciò che io vi propongo (dico) vi piaccia, poiché in questo sono pronta (disposta) a seguire il vostro desiderio (piacer), facciamolo; e se (dove) non vi piacesse, ciascuno fino al tardo pomeriggio (l’ora del vespro) faccia ciò che più gli piace».

60 Le donne… il novellare: Le donne e, allo stesso modo (parimente) tutti gli uomini, approvarono (lodarono) <la proposta di> raccontare novelle.

61 Adunque… gli sarà a grado: «Dunque», disse la regina, «se siete d’accordo, per questa prima giornata voglio che sia data libertà (libero sia) a ciascuno <di> parlare (ragionare) di quell’argomento (materia) che più gli sarà gradito (a grado)». Pampinea non indica dunque un tema su cui dovranno vertere le novelle della prima giornata, a differenza di quanto accadrà nelle altre giornate, con la sola eccezione della nona.

62 E rivolta a Panfilo… cominciò così: E, rivolta a Panfilo, il quale sedeva alla sua destra, cortesemente gli chiese (disse) di dare inizio con una delle sue novelle a <tutte> le altre; per cui (laonde) Panfilo, udito l’ordine, subito, essendo ascoltato da tutti, cominciò così. Il narratore, concludendo questa lunga Introduzione, dà ora la parola al primo dei giovani; comnciano così le novelle della prima giornata [I11].


Sette donne, tre giovani e il trionfo della vita
Il secondo movimento dell’Introduzione si era chiuso con un macabro trionfo della morte: con l’immagine di quanti, ancora vivi a pranzo, uccisi dalla peste avevano cenato nell’aldilà con i trapassati. Come si è detto nell’analisi del passo in questione [I10b] Boccaccio non interpreta questo tema macabro come uno spunto per intimare ai lettori il prevedibile memento mori. Al contrario, proprio su questo sfondo di morte e desolazione, si staglia più netta l’esaltazione della forza e dell’intelligenza dell’uomo. Nella «venerabile chiesa di Santa Maria Novella» (da notare l’uso degli aggettivi, che da subito sembrano voler abbellire gli eventi e la narrazione dei fatti), si incontrano casualmente sette giovani donne, di età compresa tra i diciotto e i ventott’anni [10]. Il narratore, secondo un uso dell’epoca ampiamente testimoniato nella letteratura [G4], non ne rivela i nomi e ne allontana le figure da ogni troppo immediata identificazione biografica. Ci dice semplicemente che ciascuna di esse era «savia» nonché «di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà». In una città spopolata dalla peste, a queste donne tocca il compito di riaffermare l’amore per la vita. I loro soprannomi (Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile e Elissa) rimandano quasi sempre a una precedente tradizione letteraria. Siamo dunque di fronte a figure che assumono un valore paradigmatico, universale. Saranno loro, insieme ai tre ragazzi che stanno per comparire sulla scena [16], a creare sulle macerie della peste il nuovo mondo del Decameron.

Dieci narratori, dieci giornate, cento novelle
Come si addice a personaggi lontani da ogni possibilità di identificazione biografica, i dieci giovani che vediamo comparire per la prima volta in questa chiesa adempiranno al loro compito attraverso la letteratura: raccontando ogni giorno, per dieci giorni (da cui il titolo Decameron) una novella ciascuno, per un totale di cento novelle. La nuova società del Decameron nasce dunque affermando i valori della vita, la socievolezza e la solidarietà mondana. Ma, per far questo, la scena dovrà spostarsi: non più la chiesa, uno spazio chiuso dentro una città devastata dalla peste, bensì il contado, uno spazio esterno alla città, aperto e alternativo a essa, o meglio alternativo a ciò che essa è ormai diventata. In altre parole «la morìa è sconfitta non mediante il pentimento dei peccati e la pia preparazione all’al di là, ma con la riscossione delle ragioni della vita e della socialità» (Padoan). Ciò emerge dal discorso di Pampinea, la più matura delle sette donne: esiste un principio naturale, «il ben vivere» innato in noi quando veniamo al mondo. Continuare a vivere a Firenze con la peste significherebbe vivere come dei morti: moltissimi sono i defunti, i vivi trascorrono un’esistenza amorale e senza rispettare i valori («rotte della obedienza le leggi» [12]). Non resta che allontanarsi dalla città: non per paura, bensì per fuggire lo stato di caos e di depravazione in cui si trova Firenze («i disonesti essempli degli altri») spostandosi in campagna, dove si potrà vivere gioiosamente e con allegria, secondo le leggi razionali dettate dall’intelligenza dell’uomo («senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione»). Non a caso il discorso di Pampinea è scandito dal ricorrere di un sostantivo e dalle conseguenti figure etimologiche: «onestà», vivere «onesto» e «onestamente» saranno tra le parole chiave dell’intero libro.

Il locus amoenus
La campagna è il luogo ideale dove poter realizzare l’arte del vivere secondo un ideale cortese e mondano. La presentazione del luogo in cui le donne intendono ritirarsi rispetta i canoni classici delle descrizioni del locus amoenus: uccelli che cantano, colli e pianure che verdeggiano, campi ondeggianti di messi, cielo scintillante, aria fresca. Anche in campagna si muore, è vero, ma il dispiacere appare minore e meno frequente che in città. In questo luogo idealizzato sarà possibile dunque ricostruire la nuova società: l’importante sarà comportarsi secondo i valori che ormai non sono più rispettati in Firenze.

I tre giovani
Il discorso di Pampinea è accettato dalle altre donne, le quali replicano con «eloquenza cerimoniosa» (Getto). Ma, come avverte Filomena [14], la donna è mobile: una brigata formata dal solo elemento femminile sarebbe destinata a dissolversi in fretta. Ma ecco che, mossi dall’amore, tre giovani entrano nella chiesa: sono Panfilo, Filostrato e Dioneo. Essi potranno aggregarsi alle sette donne e rimediare alla lacuna della brigata, garantendo l’ordine e la coesione. Le donne comunque continueranno a dominare la scena non solo perché in numero maggiore, ma perché alcuni giovani ne sono innamorati.

Le regole e la libertà
Si stabilisce come data della partenza la mattina seguente, cioè il mercoledì. La meta designata è un «palagio» situato «sopra una piccola montagnetta». Questa collocazione permette ai giovani di estraniarsi completanente dalla situazione cittadina, senza però che questo comporti una rimozione completa di tale realtà. Come ha scritto Alberto Moravia, «la peste nutre del suo orrore le piacevolezze della villa come il terreno grasso di cadaveri di un cimitero i fiori che vi crescono sopra». Più la città è caos, irrazionalità, morte, più il locus amoenus in cui si ritrova la brigata rappresenta l’ordine, la razionalità e la vita. Ma il secondo elemento trova le sue ragioni più profonde nel suo rapporto dialettico con il primo.
La prima azione della brigata è quella di darsi delle regole. Come dice Pampinea, «festevolmente viver si vuole», ma questo obiettivo può perseguirsi solo in forma organizzata, Deve essere scelto un re per ogni giornata. La prima elezione avverrà per accordo comune, poi ogni re o regina designerà il suo successore a rotazione, in modo che ciascuno goda degli onori, e si faccia carico degli oneri, di questa posizione di comando.
La prima regina è Pampinea ed a lei spetta il compito di organizzare la brigata, facendo rivivere tutti i valori del passato, eliminati dalla peste: la brigata deve agire in nome del divertimento, ma questo stesso è regolato da precisi ritmi ed obblighi (la designazione dei ruoli dei diversi servitori; il pranzare tutti insieme, il dormire ed infine il novellare). La norma però è garantita dalla libertà individuale, che si esprime anzitutto nella possibilità per ciascuno dei giovani di scegliere la propria novella all’interno del tema ogni giorno proposto dal re. In uno spazio uniforme, in una perfetta armonia contemplativa («il sole è alto e il caldo è grande […]. Qui è bello e fresco stare […] e puote ciascuno, secondo che all’animo gli è più piacere, diletto pigliare» [28]) i giovani narrano e contemplano la «immensa esperienza di vita, presente nelle novelle, ma presente come può esserlo non a chi si mescola alla vita, ma a chi la contempla da un alto e signorile belvedere» (Getto).

Realtà e idealizzazione
L’Introduzione, dunque, ci avverte che il Decameron è un’opera realistica nella narrazione dei fatti e dei luoghi, ma che essa propone un modello di vita vagheggiato e letterario, proprio in quanto le novelle vengono narrate e inserite in un tessuto organico da un gruppo di giovani che vivono in un luogo diverso da quello della realtà cittadina. Quest’ultima non dovrà contaminare il locus amoenus con le notizie della sua degradazione attuale, tant’è vero che Pampinea ammonisce i servitori a non portare dall’esterno «niuna novella, altro che lieta» [25]. Il luogo scelto per ambientare la cornice del Decameron può per molti versi richiamare quella corte in cui Boccaccio aveva trascorso i primi anni della sua giovinezza, ma può al tempo stesso anticipare quella società cortese che caratterizzerà l’Umanesimo e il Rinascimento.
Schematizzando potremmo dire che

 

la peste:

 

la vita della brigata:

è un evento eccezionale

 

è un evento eccezionale

rappresenta il trionfo della morte

 

rappresenta il trionfo della vita

ha come scenario principale la città

 

ha come scenario principale la campagna

è caotica

 

è ordinata

è un evento storico

 

è una finzione letteraria

Nel rapporto tra questi due elementi, che va tenuto costantemente presente, sta la matrice del «novellare», cioè della rappresentazione del reale nella sua molteplicità.

L’ideale dello scambio e della liberalità
Si può osservare che la scelta del novellare come passatempo privilegiato della brigata è presentata da Pampinea come alternativa a un’altra possibile occupazione del tempo, quella fondata sul gioco. Interessante è la motivazione addotta dalla donna per illustrare la sua proposta: il gioco dà a qualcuno e toglie a qualcun altro, nel senso che in esso deve necessariamente esserci un vincitore e uno sconfitto; il primo trae diletto dalla competizione, ma il dispiacere di chi perde è maggiore di questo diletto. Inoltre, chi vi assiste non ne trae un piacere significativo. Nel complesso, il gioco non comporta un aumento collettivo di felicità. Del tutto differente è la situazione del novellare, in cui ciascuno dà agli altri senza togliere a nessuno. È in questo scambio costruito in modo da arricchire tutti senza impoverire nessuno (uno scambio che inserisce idealmente il valore cortese della liberalità in una realtà storica segnata dallo sviluppo dei commerci) la formula alla quale si impronta l’organizzazione del tempo del Decameron.

La “commedia umana” dell’Introduzione
Al momento in cui la parola passa ai novellatori l’introduzione del Decameron ha però compiuto un percorso significativo: si è passati dall’inferno della peste, «orrido cominciamento», al “paradiso” (laicamente inteso) di questa allegra brigata. Avremo modo di vedere come la stessa struttura ascensionale che è presente in piccolo nell’Introduzione sia stata da alcuni critici riscontrata nell’intero libro; dando ragione a chi – cogliendo le analogie e le differenze tra l’impianto del Decameron e quello del poema dantesco – ha designato l’opera boccacciana come una «commedia umana»1.




1 La definizione, come abbiamo già osservato [I10a], si deve a Francesco De Sanctis.