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IL TESTO E IL PROBLEMA
La Divina Commedia

UNITÀ C
La letteratura religiosa

UNITÀ E
Il Dolce Stil Novo

UNITÀ F
La poesia comico-realistica


ANTONINO SCIOTTO
Ideologie e metodi storici


Queste parole sono state pronunciate da Piero Calamandrei in un discorso del 1950. Le riproponiamo a insegnanti e studenti per la loro impressionante attualità.

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.

Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950


Giovanni Boccaccio
Decameron IV, 1
Tancredi e Ghismunda
I19

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[Decameron, Giornata IV, novella 1] Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore.
1. – Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l’ha fatto: ma che che se l’abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò.
2. Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava: poi alla fine a un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi.
3. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ognora più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.
4. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuolo di canna, sollazzando la diede a Guiscardo e dicendo: “Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.”
5. Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa: e guardando la canna e quella vedendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse già mai e diedesi a dare opera di dovere a lei andare secondo il modo da lei dimostratogli.
6. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da uno fortissimo uscio serrata fosse. E era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio: il quale aperto e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire a alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato bene l’uno de’ capi della fune a un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò nella grotta e attese la donna.
7. La quale il seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio nella grotta discese, dove, trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo, e ella, serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente, sù per la sua fune sagliendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a casa; e avendo questo cammino appreso più volte poi in processo di tempo vi ritornò.
8. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse in tristo pianto.
9. Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella senza essere stato da alcuno veduto o sentito entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente si fosse nascoso, quivi s’adormentò. E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se ne entrò nella camera: e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su il letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano. E dolente di ciò oltremodo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta e ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò.
10. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in sul primo sonno Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: “Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei.”
11. Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: “Amor può troppo più che né voi né io possiamo.”
12. Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse; e così fu fatto.
13. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola: dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire: “Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io, in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba, sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da piccol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne; ma di te sallo Idio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca: ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire”. E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto.
14. Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo.
15. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato così al padre disse: “Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ’l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva: e questo, chi che ti se l’abbia mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo ’ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare opinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta: in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni a alto leva, abbasso lasciando i degnissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze, con iguali vertù create. La vertù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto: ché, se’ miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, ché così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere. Molti re, molti gran prencipi furon già poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccia del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’acerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi.”
16. Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono; e trattogli il cuore a lui il recassero. Li quali, così come loro era stato comandato, così operarono.
17. Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: “Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava.”
18. Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse, per presta averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: “Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato.”
19. E così detto, appressatoselo alla bocca, il basciò, e poi disse: “In ogni cosa sempre e infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai, di così gran presento, da mia parte gli renderai.”
20. Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: “Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato: venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre: lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava a aver compiute essequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Idio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già tanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei e, come colei che ancora son certa che m’ama, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata.”
21. E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla.
22. La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: “O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia.”
23. E questo detto, si fé dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte.
24. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire; il qual, temendo di quello che sopravenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo ne’ termini ne’ quali era, cominciò dolorosamente a piagnere.
25. Al quale la donna disse: “Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ’l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea.”
26. L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: “Rimanete con Dio, ché io mi parto.” E velati gli occhi e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.
27. Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete: li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente ammenduni in un medesimo sepolcro gli fé sepellire.