G13b
Dante Alighieri
Tanto gentile e tanto onesta pare
Vita nuova cap. XXVI

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare1.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare2.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova3:

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira4.




1 Tanto gentile… guardare: Tanto spiritualmente nobile (gentile) e decorosa negli atteggiamenti esteriori (onesta) appare evidentemente (pare; da notare che l’apparenza non è contrapposta alla realtà – come nell’uso moderno del verbo “parere” – ma è anzi manifestazione evidente della realtà stessa) la signora del mio cuore (donna mia è la traduzione del sintagma latino mea domina, da cui anche “madonna”, usato spesso dai poeti medievali per designare la donna amata; non è escluso un implicito richiamo alla Madonna, mediatrice tra Dio e l’uomo) quando essa porge il suo saluto (saluta; il verbo “salutare”, come sempre nella Vita nuova, richiama anche l’idea della salus, ossia della salvezza dell’anima) a qualcuno (altrui; il saluto è rivolto a un destinatario indeterminato, a sottolineare la dimensione universale dei miracolosi effetti prodotti dal passaggio di Beatrice), che ogni lingua diviene muta a causa dal tremore (tremando) e gli occhi non osano guardarla. Nella parafrasi di questo sonetto bisogna tener presente (come ha notato Gianfranco Contini) che quasi tutte le parole-chiave (in questa quartina: «gentile», «onesta», «pare») hanno in Dante significato assai diverso da quello che rivestono nell’italiano attuale.

2 Ella si va… mostrare: Essa cammina chiusa in se stessa (si va; la presenza del pronome riflessivo «si» indica, come osserva Spitzer, «una beatitudine in sé conchiusa, noncurante dei suoi effetti»), pur sentendosi lodare (sentendosi laudare, proposizione concessiva implicita) atteggiata alla sua interna benevolenza (benignamente d’umiltà vestuta, secondo la parafrasi di Contini; l’avverbio «benignamente» e il sostantivo «umiltà» derivano da due aggettivi, “benigno” e “umile”, che in questo contesto possono considerarsi sinonimi; «vestuta» è sicilianismo), e appare evidente (par) che sia una creatura (cosa, termine che richiama il latino causa nel significato filosofico di causa efficiente) discesa dal cielo alla terra per rappresentare in concreto la potenza divina (miracol mostrare, secondo la parafrasi di Contini).

3 Mostrasi… prova: Si manifesta (Mostrasi, che riprende per anadiplosi il «mostrare» di v. 8) talmente bella (piacente) a chiunque la contempla (mira), che attraverso (per) gli occhi dà al cuore una <tale> dolcezza che chi non ne ha esperienza (non la prova) non la può comprendere (’ntender no la può).

4 e par… sospira: e appare evidente (par) che dalla sua fisionomia (labbia, dal neutro plurale latino labia – che in origine indica le labbra – trasformato in femminile singolare e passato per sineddoche a indicare tutto il volto, o meglio la sua espressione) si muove uno spirito dolce e pieno d’amore, che dice (va dicendo, perifrasi comune nella lingua antica) all’anima: «Sospira». Si notino le allitterazioni in v («mova», «soave») e in sspirito»-«soave»-«sospira»).



Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e invertite nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC. Questo schema metrico, che ricorre anche in altre rime della Vita nuova [G6b, G10], presenta nelle quartine una serrata omofonia tra le rime, mentre nelle terzine vede succedersi tre versi privi di rima, che vengono poi specularmente riproposti dalla seconda terzina; tra le due rime in C sono interposti ben quattro versi. L’effetto di rottura dell’omofonia è però in questo sonetto temperato dalla consonanza delle rime in C e in D («mira» : «core»; «amore» : «sospira»), consonanza che, oltretutto, richiama anche la vicina rima in A («mostrare»). Il testo presenta alcuni enjambements; in due casi (vv. 1-2, 12-13) la fine del verso separa il verbo dal soggetto posposto (con effetto di rallentamento del ritmo); ai vv. 7-8 l’enjambement divide invece il verbo dal complemento di moto da luogo.

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Un lessico facile o difficile?
Contrariamente a quanto di solito avviene nella Vita nuova, Dante non fa seguire a questo sonetto alcuna “divisione”, affermando che si tratta di un testo facile, «piano ad intendere». Gianfranco Contini, uno dei più autorevoli filologi italiani, ha però dimostrato come per un lettore moderno l’apparente facilità del testo rappresenti un’insidia: il sonetto «passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che non richiede spiegazioni, che potrebbe “essere stato scritto ieri”; e si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell’originale1».
Seguiamo Contini nella spiegazione di alcune tra queste parole «essenziali»:
- «gentile» significa nobile, ed è «termine […] tecnico del linguaggio cortese»;
- «onesta» è un latinismo, ed è sinonimo di «gentile», «nel senso però del decoro esterno»;
- «pare» è probabilmente il termine per noi più insidioso: esso «non vale già “sembra”, e neppure soltanto “appare”, ma “appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza”». Beatrice insomma, ci spiega Contini, appare «gentile» ed «onesta» in quanto lo è veramente. Non si tratta né di una semplice apparenza né di un’impressione soggettiva del poeta; si tratta invece della manifestazione esterna di una qualità realmente posseduta dalla donna. Questa parola-chiave, osserva ancora il filologo, «ricompare nella seconda quartina e nella seconda terzina, cioè, in posizione strategica, in ognuno dei periodi di cui si compone il discorso del sonetto». Essa sembra assente solo dalla prima terzina; ma questa inizia con una parola che lo stesso significato («Mostrasi»), che riprende (secondo il sistema delle coblas capfinidas) l’ultima parola della seconda quartina.
- «donna» (dal latino domina) ha «il suo significato primitivo di “signora (del cuore)”»;
- «cosa» ha un significato molto diverso dall’italiano attuale: «oggi – spiega Contini – una cosa è sotto il livello ontologico della persona (una donna può diventare per abnegazione la cosa dell’amante, strumento, oggetto senz’autonomia)». Viceversa, nel sonetto di Dante, questo termine designa «un essere in quanto, precisamente, causa di sensazioni e impressioni».
Possiamo aggiungere a questo proposito che, come altrove si è osservato [E1, G8b, G9, G10], la donna appare sovente, nella poesia stilnovistica, come causa efficiente dell’amore: questo è in potenza all’interno del cuore gentile, ed essa lo fa passare in atto. Dante si riallaccia dunque a questa tradizione, ma aggiunge un elemento nuovo: il sentimento suscitato dalla donna è infatti descritto come un vero e proprio miracolo (v. 8); e questo termine andrà inteso in senso propriamente religioso.

Le proposizioni consecutive: una sintassi dell’ineffabile
La costruzione sintattica del sonetto è piuttosto lineare, in obbedienza ai dettami dello stile “dolce” che rifugge dai costrutti artificiosi e difficili. La frequenza della congiunzione coordinante «e» in posizione iniziale di verso (vv. 4, 7, 12) determina un effetto di accumulazione che conferisce al testo il ritmo lento tipico della contemplazione estatica. Ma il testo affida molti dei suoi effetti all’uso delle proposizioni consecutive. Nella prima quartina sono presenti due di queste proposizioni tra loro coordinate («ch’ogne lingua deven tremando muta / e li occhi no l’ardiscon di guardare, vv. 3-4), anticipate nel primo verso dall’avverbio «tanto», anch’esso ripetuto due volte. Altre due consecutive, stavolta subordinate l’una all’altra, si incontrano ai v. 10-11: la prima di esse («che dà per li occhi una dolcezza al core», v. 10) è subordinata di primo grado ed è anticipata da un avverbio nella principale («sì», v. 9); la seconda invece è subordinata di secondo grado (dipende cioè dalla prima consecutiva) e non viene anticipata da avverbi, tanto da poter essere a prima vista scambiata con un’espansione relativa del sostantivo «dolcezza».
La frequenza delle proposizioni consecutive e la loro posizione strategica (all’inizio della prima quartina e all’inizio della prima terzina) non sembrano causali. Secondo Francesco Agostini, l’uso delle consecutive rappresenta «uno stilema avente un preciso valore funzionale. Il sentimento d’amore, concepito come qualcosa di per sé ineffabile, non viene espresso in forma diretta ma soltanto attraverso l’analisi di alcune reazioni che esso provoca nel “cor gentile” 2». Anche la sintassi, insomma, ci riporta a uno dei nuclei fondamentali della poetica della lode: l’intrinseca incapacità della poesia di adempiere pienamente il suo compito, cioè di «finire» la «laude» della donna; un problema che Dante aveva già individuato in Donne ch’avete intelletto d’amore [G8b].

Livello tematico

La centralità del miracolo
Il sonetto presenta la stessa dispositio della prosa che lo precede. Nell’ordine si incontrano:
a) gli effetti che il passaggio della donna produce nel cuore di chi la contempla (vv. 1-4);
b) l’atteggiamento di concentrazione interiore e di «umiltà» della donna (vv. 5-6);
c) la definizione della sua natura miracolosa (vv. 7-8), presentata stavolta, a differenza di quanto avviene nella prosa, oggettivamente e senza far ricorso alla voce dei contemplanti;
d) di nuovo gli effetti che il passaggio della donna produce nel cuore di chi la contempla, con insistenza sull’impossibilità di rappresentarli compiutamente a parole (vv. 9-14).
Abbiamo, anche in questo caso, due quinte costituite dalle reazioni dei contemplanti, tra le quali si inquadra la scena centrale, relativa a Beatrice, al suo atteggiamento interiore, alla sua natura miracolosa. Proviamo a leggere il sonetto, dunque, procedendo dalla periferia al centro.
La prima quartina – che sembrerebbe inizialmente suggerire, attraverso l’anafora dell’avverbio «tanto», la possibilità di quantificare la “gentilezza” e l’“onestà” della donna – dimostra invece che tali qualità non possono essere ridotte a misura umana. Ne sono prova le due consecutive dei vv. 3-4, che descrivono gli effetti del passaggio di Beatrice in forma esclusivamente negativa (con il mutismo di «ogne lingua» e con l’impossibilità per gli occhi di guardare), trasportando la figura della donna in una dimensione superiore a quella umana. La quartina rende il senso di una contemplazione estatica, fuori dal tempo: nonostante l’alta frequenza dei verbi, non c’è – all’infuori del saluto della donna – alcuna azione esteriore. Ne deriva un effetto di sospensione del movimento che accentua il clima di miracolo.
La prima terzina, anch’essa incentrata su due proposizioni consecutive, si conclude di nuovo sull’impossibilità di comunicare la «dolcezza» della visione a chi non ne abbia fatto diretta esperienza. Si tratta di un tema in cui si congiungono due elementi: da un lato, la tradizionale concezione stilnovistica della cerchia dei fedeli d’Amore, élite selezionata in base all’esperienza diretta che garantisce la possibilità di comprendere tale sentimento; dall’altro la tradizione mistica, per la quale l’amore per Dio determina l’impossibilità di parlare di lui (ma anche, contraddittoriamente, la necessità di parlarne3).
L’ultima terzina è la più vicina alla tradizione della poesia cortese e stilnovistica, cui deve sicuramente la teatralizzazione della realtà interiore rappresentata tramite il consueto motivo degli spiriti. Si può però osservare che il tema dei sospiri, certamente tradizionale, è presentato nella Vita nuova in una luce diversa dal consueto. Già nel sonetto Ne li occhi porta la mia donna Amore [G10] Dante aveva infatti chiarito che chiunque veda passare Beatrice «sospira» non già per semplice desiderio, bensì per il pentimento di ogni proprio «difetto» in confronto a una creatura così spiritualmente elevata. I sospiri, dunque, non vanno intesi nel senso che a noi moderni sembrerebbe più ovvio: anche questo tema si ricollega alla natura angelica di Beatrice, alla sua perfezione morale, alla sua funzione di mediatrice tra il cielo e la terra.
Al centro tra le due quinte sono i quattro versi che riguardano Beatrice. Essi si soffermano dapprima sulla concentrazione interiore (sottolineata dal riflessivo «si» premesso al verbo di moto «va», v. 5) e sull’atteggiamento di «umiltà» con cui la donna accoglie la venerazione da lei suscitata (v. 6). La metafora «benignamente d’umiltà vestuta», presente anche in Andrea Cappellano e in molti poeti provenzali, contiene un preciso richiamo scritturale: «Induite […] benignitatem, humilitatem, modestiam, patientiam» [«Rivestitevi dunque, […] di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza»] (Paolo, Colossesi, III, 12). Del significato filosofico del termine «causa» si è già detto. Ma il verso 7 ci consente un’altra osservazione, assai importante, sulla natura del miracolo che si origina dal passaggio Beatrice.

L’oggettività del miracolo
In una precedente versione del sonetto a v. 7, al posto di «par», era presente il verbo «credo». Limitando la sua affermazione a una convinzione del tutto soggettiva, Dante presentava inizialmente il miracolo «come un’iperbole del sentimento del poeta, non come sentimento di tutti» (De Robertis). L’inserimento del verbo «par» (di cui si è sopra chiarito il significato) va invece «a vantaggio di una più generale […] partecipazione ed evidenza (uno stato di grazia, il miracolo come sentimento di tutti)». L’affermazione che Beatrice è venuta in terra «a miracol mostrare» non è insomma una semplice immagine letteraria, bensì la registrazione di una realtà oggettivamente esistente e universalmente riconosciuta. Tutto il lessico del sonetto conferma del resto l’intenzione di eliminare ogni riferimento a una visione soggettiva del poeta: il pronome «altrui» (v. 2), il sintagma «ogne lingua» (v. 3), il plurale «li occhi» non riferito specificamente a nessun individuo (v. 4 e 10), gli altrettanto indeterminati sostantivi «core» (v. 10) e «anima» (v. 14) e il pronome relativo – con significato di chiunque – nella proposizione «chi la mira» (v. 9) sono tutti elementi che confermano la dimensione oggettiva, e riconosciuta dall’intera collettività, del miracolo di Beatrice.
Anche nella prosa che precede, del resto, il tema del miracolo occupava una posizione centrale e assumeva la stessa dimensione collettiva. Al coro delle voci dei contemplanti Dante sostituisce ora una rigorosa definizione della natura miracolosa della donna: la sua presenza tra gli uomini è frutto di un preciso movimento discendente («da cielo in terra») voluto da Dio per manifestare («mostrare») il divino nell’umano.
L’amore per Dio, come ci aveva detto anche la prosa [G13a, 5] può nascere dunque dall’amore per le sue creature. Gli esseri umani (non tutti, ma certo i più degni tra loro) possono ispirare sentimenti che inducono a lodare il creatore. Siamo, evidentemente, molto al di là dei contenuti della tradizionale lirica amorosa: nella poesia di Dante l’amore per Beatrice si presenta con accenti che possono far pensare alla francescana lode di Dio attraverso le creature [C4]). «Il poeta – nota a questo proposito Vittore Branca4 – vede in una creatura eccellente, ma sensibile, lo specchio di Dio e ne celebra le lodi. Vede cioè in Beatrice non certo Dio o Cristo ma soltanto, secondo il linguaggio allora corrente, uno “speculum Christi”; come deve essere ogni uomo, come è in effetti ogni santo. […] Proprio la mistica e la pietà francescane amavano proporre non concezioni o vie astratte di perfezione, ma concreti esempi di “specula”: e all’affissarsi diretto nel modello di Dio incarnato, troppo arduo e sublime, preferivano l’umile considerazione di uno “speculum Christi” che in qualche modo facesse da mediatore fra la materialità dell’uomo e la trascendenza divina».




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