F7
Cecco Angiolieri
Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo

Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo,
tu mi tien’ bene la lancia a le reni1,
s’eo desno con altrui, e tu vi ceni2;
s’eo mordo ’l grasso, tu ne sugi ’l lardo3;

s’eo cimo ’l panno, e tu vi freghi ’l cardo4:
s’eo so discorso, e tu poco raffreni5;
s’eo gentileggio, e tu misser t’avveni6;
s’eo so fatto romano, e tu lombardo7.

Sì che, laudato Deo, rimproverare
poco pò l’uno l’altro di noi due:
sventura o poco senno cel fa fare8.


E se di questo vòi dicere piùe,
Dante Alighier, i’ t’averò a stancare;
ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ ’l bue9.






1 Dante Alighier… a le reni: O Dante Alighieri, se io sono (so) un gran (bon) fanfarone (begolardo), tu mi segui molto da vicino (mi tien’ bene la lancia a le reni, metafora). Lo stesso concetto – “se io ho un vizio, tu non sei da meno” – è ribadito insistentemente nelle quartine, attraverso un succedersi di metafore.

2 s’eo desno… tu vi ceni: se io pranzo (desno) con qualcuno (altrui), tu vi ceni. La congiunzione e – che ricorre in tutte le quartine – è paraipotattica: sembra presentare come proposizione coordinata quella che è, in effetti, la reggente della proposizione precedente («tu vi ceni» è l’apodosi del periodo ipotetico di cui «s’eo desno con altrui» costituisce la protasi).

3 s’eo mordo… ’l lardo: se io mordo il grasso, tu succhi il lardo. Anche qui le due espressioni hanno significato quasi identico. Il verso potrebbe riferirsi al vizio dell’avidità.

4 s’eo cimo… ’l cardo: se io tolgo il pelo (cimo) al panno, tu vi strofini (freghi) il pettine (cardo). Il verso sembra riferirsi al vizio della maldicenza (cimare il panno”, come nota Marti, è espressione analoga al nostro “tagliare i panni addosso a qualcuno”). Poiché il “cardare” è azione più energica del “cimare”, Cecco sostiene qui che Dante lo supera in maldicenza.

5 s’eo so… raffreni: se io sono (so) andato troppo oltre (discorso), tu ti trattieni (raffreni) poco.

6 s’eo gentileggio… t’avveni: se io mi do arie da gran signore (gentileggio), tu ti atteggi (t’avveni) a messere (misser; la forma con la -i protonica è senese).

7 s’eo so fatto… lombardo: se io sono stato costretto ad andare a Roma, tu <sei stato costretto ad andare> in Italia settentrionale (“Lombardia” indicava nel medioevo un’area molto più vasta di quella attuale). Non si hanno notizie certe circa la permanenza – o forse l’esilio – di Cecco a Roma. Quanto a Dante, il sonetto potrebbe riferirsi a un momento in cui l’esule si rifugiò a Verona.

8 Sì che… cel fa fare: Per cui, <che sia> lodato Dio, ciascuno (l’uno) di noi due può () rimproverare poco l’altro. La disperazione (sventura) o la stupidità (poco senno) ci induce a farlo. La terzina si riferisce evidentemente a un precedente attacco polemico di Dante.

9 E se di questo… ’l bue: E se su questo argomento (di questo) vuoi parlare ancora (piùe, forma con epitesi), o Dante Alighieri, io finirò per stancarti; perché (ch’) io sono il pungiglione, e tu sei il bue (metaforicamente, io sono in grado di infastidirti più di quanto tu possa fare con me).



Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine. Lo schema è ABBA, ABBA; CDC, DCD.

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Il testo, che presenta alcune forme toscane (come il «so» dei vv. 1, 6, 8) o propriamente senesi (come il «misser» del v. 7), ed espressioni popolaresche (come «begolardo», v. 1) è costruito nelle quartine su una successione di periodi ipotetici, tutti coincidenti con un intero verso (tranne il primo, che si distende su due versi). A partire dal v. 3, il primo emistichio – che coincide con la protasi – presenta l’ammissione, perlomeno ipotetica, del vizio che Dante, in un precedente sonetto ora perduto, aveva rimproverato a Cecco; il secondo emistichio – coincidente con l’apodosi – attribuisce lo stesso vizio, talvolta anche aggravato, a Dante stesso. La ripetitività è accentuata dall’anafora e dal ripetersi dell’«e» paraipotattico all’inizio del secondo emistichio. Per questi tratti, il testo richiama assai da vicino il sonetto S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo [F3], che presenta anche il medesimo schema metrico. Il ritmo rallenta nelle terzine, peraltro costruite anch’esse in modo sintatticamente assai semplice. La figura retorica dominante è la metafora, spesso corposa e popolaresca (vv. 3-5, v. 14), come si addice a un genere – la tenzone – che, nella sua versione comica, si incentra spesso sullo scambio di battute ingiuriose1.

Livello tematico
Nelle quartine, rimanendo come si è visto costante lo schema ritmico-sintattico, l’inventiva di Cecco si concentra sulla ricerca di diverse metafore che esprimano tutte il medesimo concetto: “se io ho un vizio, tu non sei da meno”. La prima terzina – che viene subito dopo un verso in cui è richiamata la dolorosa realtà dell’esilio di Dante, e probabilmente anche uno spiacevole allontanamento dalla patria di Cecco – costituisce una pausa pensosa, in cui Cecco sembra quasi offrire la pace all’avversario. La seconda terzina pone, però, le condizioni della pace: Cecco ricorda che l’ultima parola deve spettare a lui e che, se Dante vorrà continuare nella tenzone, senza dubbio avrà a pentirsene. Non va dimenticato che il genere comico – con il quale, come si sa, Dante stesso non disdegnava di cimentarsi – era inteso come un esercizio letterario certo meno nobile, ma non meno rigoroso e codificato dei generi “alti”. In tal senso il verso finale, più che come un ulteriore attacco personale contro Dante, può essere inteso come una consapevole rivendicazione, da parte di Cecco, della propria eccellenza in questo specifico ambito di poesia.


1 La tenzone, di origine provenzale, è presente anche nella letteratura “alta”. In ambito siciliano, ad esempio, Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e Jacopo da Lentini tenzonarono sulla natura d’amore.


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