E8
Guido Cavalcanti
Tu m’hai sì piena di dolor la mente

Tu1 m’hai sì piena2 di dolor la mente3,
che l’anima si briga4 di partire5,
e li sospir’ che manda6 ’l cor dolente7
mostrano agli occhi8 che non può soffrire9.

Amor, che lo tuo grande valor sente10,
dice: “E’ mi duol che ti convien morire11
per questa12 fiera13 donna, che niente14
par che pietate di te voglia udire15”.

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno16,

che si conduca sol per maestria17
e porti18 ne lo core una ferita
che sia, com’19 egli è morto20, aperto21 segno.




1 Tu: il destinatario è espresso direttamente alla seconda persona singolare. Il passaggio dal «voi» al «tu» serve a rafforzare l’apostrofe appassionata.

2 piena: riempita (participio).

3 mente: «E’ lo spazio entro il quale si consuma il dramma dell’anima e del cuore» (De Robertis) [vedi E6-E7].

4 si briga: si sforza, si ingegna, si affretta. L’espressione è già usata da Jacopone in Un arbore è da Dio plantato, vv. 40-41: «non venire / se non te brighi de partire da omne mortal peccato». Ma vedi anche L’omo che può la sua lengua domare, vv. 151-154: «le vitia, che stanno a la nascosta, / ciascuno se briga de aiutare, / de non lassar l’albergo [il cuore dell’uomo] fanno rosta [resistenza], / ciascuno se briga de esforzare», in cui, come nel sonetto, si illustra un conflitto interiore che vede l’espressione «se briga« usata in senso specularmente opposto a quello cavalcantiano.

5 partire: il verbo indica l’allontanamento delle facoltà vitali.

6 manda: mette, emette.

7 cor dolente: il cuore dolente; è quasi anagramma di «dolor»…«mente» (v. 1).

8 agli occhi: alla vista altrui, se si intende lo sguardo di chi sta osservando la scena dell’innamoramento; ma appare più convincente un’interpretazione che escluda, nelle quartine, un pubblico di osservatori e limiti il fenomeno all’innamorato e alla donna: i sospiri, che vengono emanati dal cuore dolorante, si mostrano negli occhi in lacrime; o, ancor più letteralmente: i sospiri, che vengono emanati dal cuore dolorante, mostrano agli occhi che l’anima non può sopportare il dolore, con la scissione e la personificazione degli elementi dell’organismo umano già notate, in cui però, stavolta, sono coinvolti anche gli occhi (accade già in Li mie’ foll’occhi che prima guardaro). In quanto personae, naturalmente, può accadere agli occhi di commuoversi e dunque di riempirsi di lacrime: così in Cavalcanti si assiste alla messa in scena dell’evento amoroso, con tutti gli effetti provati e vissuti dal protagonista, che diventa spettatore di se stesso.

9 soffrire: sopportare.

10 sente: percepisce con i sensi (dal latino sentio).

11 E’…morire: Mi dispiace che tu debba (ti convien) morire.

12 per questa: a causa di questa.

13 fiera: crudele.

14 niente: per niente. Ha valore avverbiale.

15 par…udire: è evidente (par) che non voglia ascoltare parole che chiedano pietà per te.

16 I’ vo…legno: Io vado come chi sia fuori di vita e che, a guardarlo (a chi lo sguarda), si manifesta (par) come un uomo fatto di metallo (rame), di pietra o di legno. Ciò che qui viene raffigurato è il paradosso di una vita apparente, di quella “morte in vita” che rappresenta la situazione dell’amante sconvolto dalla passione; una situazione che pone il poeta nell’impossibilità di trovare un adeguato paragone. L’immagine di «colui ch’è fuor di vita» richiama la similitudine guinizzelliana della «statüa d’otono» (Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo [E3]), ma ne costituisce un superamento. Guinizzelli, infatti, paragonava l’innamorato a una statua di metallo (riferendo razionalisticamente la condizione dell’innamorato a un oggetto reale). Nella similitudine di Cavalcanti, invece, il secondo termine di paragone non è tratto dalla realtà, è una nuova, allucinata figurazione: quella di un uomo privo di vita e che tuttavia «va», si muove; un uomo (non una statua) fatto di metallo, di pietra o di legno e che, nella terzina successiva, si manifesta come un automa, mosso da un meccanismo artificiale.

17 si conduca: si muova, sia mosso, solo per artificio (dal francese se conduire); la terzina aggiunge nuovi particolari a questa figura di uomo-automa: un essere che ormai può muoversi solo per il meccanismo del maestro che l’ha fabbricato.

18 porti: coordinato con «si conduca», retto da «che». L’uomo-automa si muove con una ferita ben visibile in corpo, nel cuore precisamente, ed è privato di ogni traccia di vita effettiva.

19 com’: prolettico rispetto a «segno»: di come, del modo come.

20 è morto: è stato ucciso.

21 aperto: evidente (Contini).



Livello metrico
Il sonetto è costituito da due quartine a rime alternate (che seguono la forma più antica), e due terzine a tre rime, secondo lo schema ABAB-ABAB; CDE-DCE.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Da un punto di vista lessicale, il sonetto presenta le principali parole chiave del pensiero-poesia di Cavalcanti. In evidenza, ad aprire le quartine e le terzine, è il pronome personale: di seconda persona singolare (rispetto al tradizionale «voi» già riscontrato in Guinizzelli e in altre opere del Guido fiorentino) e di prima persona («I’»), per sottolineare la drammaticità della situazione e insieme marcare la differente focalizzazione tra due delle tre partizioni del sonetto (la terza è introdotta dal terzo protagonista del dramma: «Amor»). Il lessico è specificamente cavalcantiano; ricorrono le parole «mente», «anima», «cor», ma si possono notare vocaboli tipici dello Stilnovo, come «pietade», «occhi». Colpiscono per la loro connotazione di materiale inerzia i termini «rame», «pietra», «legno», collocati accanto a «maestria» nel campo semantico del movimento artificioso. Le forme impersonali risentono della lingua francese.
L’andamento sintattico è semplice e piano; domina la paratassi, modulata agilmente, per sottolineare il livello dialogico del componimento, con brevi periodi ipotattici; il ritmo non si distanzia molto dalla sintassi. La punteggiatura corrisponde alla divisione in tre momenti individuata: il punto fermo compare alla fine della prima e della seconda quartina e alla fine delle terzine, che costituiscono un unico blocco tematico. Alla vivacità delle quartine, animate dall’andamento del doppio dialogo (dell’amante verso la donna, di Amore verso l’amante), dalla presenza e dall’azione delle personificazioni dell’organismo, nelle terzine si contrappone la muta e sorda presenza dell’io ridotto a meccanismo.

Livello tematico
Il sonetto, come si è accennato, può essere diviso in tre momenti, che costituiscono altrettanti quadri dell’esperienza amorosa.

L’apostrofe
La prima quartina contiene un’apostrofe diretta alla donna, che viene designata dal «tu» per sottolineare la mancanza di distanza tra l’uomo e la causa della sua sofferenza. Cavalcanti abbandona qui il classico «voi», più adatto a evidenziare il senso di estatica soggezione che genera un essere il quale col solo incedere nobilita l’uomo, per rivolgersi direttamente a colei che rappresenta la felicità irraggiungibile, cioè l’eterno dolore. In realtà non si tratta di una donna in carne ed ossa, bensì di un phantasma che ha colmato la mente, cioè l’immaginazione, del poeta, al punto che l’anima sensitiva (della quale, come già sappiamo, la «mente» fa parte) ha fretta di allontanarsi da lui. Il verbo «partire» indica l’allontanamento delle facoltà vitali, proprie appunto dell’anima sensitiva.
Attraverso un quasi-anagramma la descrizione passa quindi agli effetti che il phantasma provoca nel «cor dolente» (dopo avere, come sappiamo da Voi che per li occhi mi passaste ’l core [E6], destato la «mente» attraverso gli «occhi»). Gli occhi, in questo caso, non sono il semplice mezzo che permette all’immagine di arrivare alla «mente»; stavolta essi stessi sono personificati e, per mezzo delle lacrime, esprimono la sofferenza, conseguenza della battaglia che si sta compiendo tra l’Amore e gli spiriti di cui è costituita l’essenza dell’amante.

La «morte»
Nella seconda quartina la parola è data ad Amore che, percependo la grande potenza («valore») con cui il phantasma della donna sconvolge l’animo dell’amante, ne prevede, in un discorso diretto, l’inevitabile e doloroso destino. Amore si duole che l’uomo debba morire, sebbene si tratti di una morte metaforica, la morte del cuore innamorato a causa di una donna crudele, che sembra mostrare totale indifferenza nei confronti del poeta (il tema anticipa la durezza della donna Pietra dantesca e per alcuni versi anche quella della Laura di Petrarca). Non si deve cercare di identificare tale personaggio in una donna reale, né chiedersi perché sia così spietato: il suo atteggiamento appare assolutamente plausibile se si pensa che siamo di fronte ad una proiezione del tutto immaginaria della figura femminile, che si colloca esclusivamente della «mente» dell’uomo. Non è possibile che tale donna, ineffabile phantasma, possa interagire con il poeta.

L’automa
Nelle terzine si riprende la descrizione degli effetti della passione amorosa. In maniera simmetrica rispetto al «tu» della prima quartina, la prima terzina si apre con «io». La scena ora si sposta sull’uomo e sulle conseguenze che la fissazione sul phantasma della donna ha provocato. L’uomo si vede andare: situazione paradossale, perché è il poeta stesso che descrive il suo incedere, il suo atteggiamento, osservandosi da una posizione straniata rispetto al corpo. I movimenti non sono quelli di un essere vivente; ci troviamo di fronte a un vero e proprio automa, che si muove in virtù di un meccanismo artificiale. L’artefice di tutto ciò è ovviamente Amore. Nella prima terzina è interessante notare come Cavalcanti abbia superato l’artificio retorico della semplice similitudine per arrivare ad elaborare la figurazione oggettiva, plastica, del proprio mondo interiore, attraverso un oggetto che si muove in un modo del tutto particolare. Non siamo di fronte, come in Guinizzelli, ad una semplice statua: l’uomo stesso è fatto di rame, pietra o legno. L’immagine dell’automa condotto dalla «maestria» d’Amore può, per certi versi, ricordare la poetica novecentesca del «correlativo oggettivo1». Tale figurazione della desolazione e dell’alienazione del poeta va infatti ben oltre la tradizionale e razionale poetica guinizzelliana della similitudine; l’automa è una allucinata oggettivazione delle conseguenze della passione amorosa, che mostra e «porta» visibilmente nel cuore il segno evidente della causa della sua morte metaforica.


1 Il termine “correlativo oggettivo” è stato coniato dal poeta e critico angloamericano Thomas Stearns Eliot; nella raccolta di scritti teorici Il bosco sacro (1920) egli afferma che la poesia, per esprimere un’emozione, deve ricercare «una serie di oggetti, una situazione, una catena d’eventi, che sarà la formula di quell’emozione particolare; cosicché, quando sian dati i fatti esterni, che devon concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione sia immediatamente richiamata».

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