C2
Tommaso da Celano?
Dies irae

Dies irae, dies illa:
solvet saeculum in favilla,
teste David cum Sibylla.1

Quantus tremor est futurus,
quando iudex est venturus,
cuncta stricte discussurus!2

Tuba, mirum spargens sonum
per sepulchra regïonum,
coget omnes ante thronum.3

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura,
iudicanti responsura.4

Liber scriptus proferetur,
in quo totum continetur,
unde mundus iudicetur.5

Iudex ergo cum sedebit,
quidquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.6

Quid sum miser tunc dicturus,
quem patronum rogaturus,
cum vix iustus sit securus?7

Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis!8

Recordare, Iesu pie,
quod sum causa tuae viae,
ne me perdas illa die.9

Quaerens me sedisti lassus,
redimisti crucem passus:
tantus labor non sit cassus.10

Iuste iudex ultionis,
donum fac remissionis
ante diem rationis.11

Ingemisco tamquam reus,
culpa rubet vultus meus:
supplicanti parce, Deus.12

Qui Mariam absolvisti,
et latronem exaudisti,
mihi quoque spem dedisti.13

Preces meae non sunt dignae,
sed tu bonus fac benigne,
ne perenni cremer igne.14

Inter oves locum praesta
et ab haedis me sequestra
statuens in parte dextra.15

Confutatis maledictis,
flammis acribus addictis,
voca me cum benedictis.16

Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis:
gere cura mei finis.17

Lacrymosa dies illa
qua resurget ex favilla
iudicandus homo reus:18

huic ergo parce, Deus.
Pie Iesu Domine,
dona eos requie.19





1 Dies irae… Sibylla: Giorno d’ira, quel giorno: / dissolverà (solvet) il mondo (saeculum) in cenere (favilla) / come attesta David con la Sibilla. La visione terribile del giorno del Giudizio viene annunciata dalla voce biblica di David, ma anche dalla voce pagana della Sibilla (profetessa del mondo greco-romano che si riteneva ispirata da Apollo). È tipico della mentalità medievale considerare la cultura pagana come anticipatrice inconsapevole della vera religione (è la cosiddetta interpretazione figurale dell’antichità, di cui ha parlato Auerbach). I Libri sibillini, che custodivano le profezie di molte Sibille, erano guardati con riverenza dai Padri della Chiesa.
Il v. 2 sembra presentare una sillaba in più rispetto alla misura dell’ottonario. Ma nella lettura vanno elisi i suoni «-um» della parola «saeculum» (così come avviene, quando la parola successiva inizia per vocale, nella metrica classica latina). In altre edizioni dell’inno è invece presente la forma sincopata «saeclum» (in tal caso, ovviamente, non è necessaria l’elisione).

2 Quantus… discussurus: Quanto grande (quantus) dovrà essere (est futurus) il tremore, / quando dovrà venire (est venturus) il giudice, / per esaminare (discussurus) tutte le cose (cuncta) severamente (stricte)! Rendiamo con dovrà essere e dovrà venire i costrutti perifrastici latini «est futurus» ed «est venturus»; si tratta di “perifrastiche attive”, ossia di proposizioni che impiegano il participio futuro associato con il verbo esse; con tale costrutto la lingua latina rende l’idea di un’azione imminente o necessaria. È participio futuro anche «discussurus», che abbiamo tradotto con una proposizione finale.

3 Tuba… thronum: La tromba (tuba), spargendo un mirabile suono / attraverso (per) i sepolcri delle nazioni (regïonum), / raccoglierà (coget: ma il verbo latino cogo suggerisce l’idea della costrizione, della necessità) tutti davanti al trono.

4 Mors… responsura: Si stupirà la morte e la natura / quando risorgerà la creatura / per rispondere (responsura) a Colui che giudica (iudicanti). Lo stupore della morte e della natura, che in questa immagine apocalittica sono personificate, è determinato dalla resurrezione della carne, ossia dal fatto – umanamente non spiegabile – che i morti usciranno dai sepolcri riprendendo i loro corpi. Ancora una volta la densità semantica del testo si incentra intorno ai participi: il participio futuro «responsura» – che dà l’idea di un’azione necessaria e quasi imminente imposta all’uomo – e il participio presente «iudicanti» (che può essere reso in italiano solo con una perifrasi), che designa Dio senza nominarlo.

5 Liber… iudicetur: Sarà portato (proferetur) il libro scritto / in cui è contenuto (continetur) tutto ciò (totum) / in seguito a cui (unde) il mondo possa esser giudicato (iudicetur). All’indicativo futuro semplice «proferetur» seguono l’indicativo presente «continetur» (il libro è infatti già scritto, esiste fin da adesso) e il congiuntivo «iudicetur», che ha valore consecutivo (il giudizio di Dio sarà conseguenza inevitabile di ciò che è scritto nel libro).

6 Iudex… remanebit: Quando dunque (ergo) il giudice sarà seduto / tutto ciò che (quidquid) è nascosto (latet) apparirà, / nulla (nil, forma diffusa nel medioevo per nihil) resterà impunito (inultum). La drammaticità della visione è sottolineata dal ritmo martellante dei tre indicativi futuri in rima tra di loro.

7 Quid… securus: Cosa potrò dire (sum… dicturus) allora, io misero? / Quale avvocato (quem patronum) potrò invocare (il participio futuro rogaturus dipende, come il precedente «dicturus», dal verbo «sum») / quando a malapena (vix) il giusto sarebbe (il congiuntivo presente sit suggerisce l’idea di un evento possibile, ma tutt’altro che certo) sicuro? La perifrastica attiva («sum dicturus», «<sum> rogaturus») insiste ancora sull’idea dell’imminenza del giudizio. Il peccatore, che sa di doversi discolpare, si interroga con angoscia perché consapevole della propria indegnità. In questi versi – tra i più pessimistici della sequenza – la natura umana ci appare immeritevole di salvezza.

8 Rex… pietatis: O Re di tremenda maestà / che salvi per tua grazia (gratis) coloro che sono da salvare (salvandos) / salva me, o fonte di pietà. La centralità del tema della salvezza è sottolineata dal ricorrere, nell’arco di due versi, di tre diverse forme del verbo salvare (si tratta di un poliptoto). L’avverbio «gratis» sottolinea la sproporzione tra i meriti dell’uomo, di per sé insufficienti, e la Grazia divina che può, per un imperscrutabile disegno, concedere la salvezza. Il gerundivo «salvandos» (che appartiene alla forma passiva del verbo e che abbiamo reso come coloro che sono da salvare) suggerisce un’idea simile a quella che, nella forma attiva, si esprime con il participio futuro: l’idea cioè che perfino la salvezza sia un evento necessario, predestinato, rispetto al quale poco o nulla valgono i meriti dell’uomo. Il tema della Grazia, che ha suscitato nella teologia cristiana un complesso dibattito sui rapporti tra predestinazione e libero arbitrio, ha un precedente importantissimo nella riflessione di Sant’Agostino.
Questa strofa fa da cerniera tra la prima parte del componimento (vv. 1-21), occupata dalla visione del terribile giudizio di Dio (qui ancora indicato come «Rex tremendae maiestatis», secondo una concezione desunta dal Vecchio Testamento), e la seconda parte (vv. 25-57), che coincide con la preghiera vera e propria. Il passaggio dalla visione alla preghiera è testimoniato dalla comparsa di un verbo all’imperativo presente («salva») e dal riferimento, anch’esso nuovo, alla misericordia di Dio (qualificato per la prima volta con un attributo, «fons pietatis», che apre al peccatore la possibilità di sperare nella salvezza).

9 Recordare… die: Ricorda (recordare, imperativo), o Gesù pietoso (Iesu pie: in questa strofa il Dio veterotestamentario è sostituito per la prima volta dal Figlio) / che io sono la causa del tuo cammino (tuae viae si riferisce al percorso terreno di Cristo dall’Incarnazione alla Passione), / non mandarmi in perdizione (ne me perdas, congiuntivo esortativo) in quel giorno. La prima persona singolare con cui l’orante si rivolge a Dio indica, qui e nei versi successivi, l’intera umanità.

10 Quaerens… cassus: Cercando me sedesti stanco (lassus), / mi salvasti sopportando (passus) la croce: / tanto dolore (labor) non sia vano (cassus). Il primo verso fa probabilmente riferimento a un episodio evangelico (Giovanni, IV, 6), in cui si narra che Cristo sedette al pozzo di Giacobbe, dove chiese da bere a una donna samaritana. Occorre ricordare che, sul piano del pregiudizio razziale, Giudei e Samaritani erano separati dalla massima distanza: era perciò sorprendente il semplice fatto che Gesù rivolgesse la parola a quella donna. L’implicito richiamo a quest’episodio rafforza l’idea portante della seconda parte della sequenza: la speranza cioè che, a dispetto dell’evidente indegnità del peccatore, l’amore gratuito di Cristo possa accoglierne le preghiere e redimerlo. Se così non fosse, del resto, sarebbe stata inutile la stessa Passione.

11 Iuste… rationis: O giusto giudice di punizione (ultionis), / fai dono del perdono (remissionis) / prima del giorno della resa dei conti (rationis). Si ripresenta in questa strofa l’alternanza tra gli attributi terribili di Dio, desunti dall’Antico Testamento e tipici della prima parte della sequenza («iudex ultionis») e quelli “paterni”, desunti dal Nuovo, che dominano nella seconda.

12 Ingemisco… Deus: Gemo come un reo, / il mio volto si arrossa (rubet) per la colpa (culpa è ablativo di causa): / risparmia (parce) chi ti supplica (supplicanti è participio presente), o Dio.

13 Qui… dedisti: Tu, che assolvesti Maria <Maddalena> / ed esaudisti il ladrone, / desti anche a me la speranza. Il riferimento ai due noti peccatori perdonati di cui parlano i Vangeli autorizza la speranza di salvezza per l’uomo che, con i soli propri meriti, non potrebbe mai raggiungerla.

14 Preces… benigne: Le mie preghiere non sono degne / ma tu, buono, fa’ in modo (fac), benignamente, / che io non sia bruciato (cremer) nel fuoco (igne) perenne.

15 Inter… dextra: Dammi (praesta) un luogo tra gli agnelli / e dividimi (me sequestra) dai capri / collocandomi (statuens) dalla parte destra. La distinzione tra gli agnelli (destinati alla salvezza e collocati alla destra del Padre) e i capri (destinati alla dannazione e collocati alla sinistra) è in Matteo, XXV, 33. La strofa presenta assonanza in luogo della rima.

16 Confutatis… benedictis: Confusi i malvagi (maledictis), / assegnatili (addictis) alle fiamme acri / chiama me con i benedetti.

17 Oro… finis: <Ti> prego, supplice e genuflesso / col cuore contrito come cenere: / prendi cura della mia fine.

18 Lacrymosa… reus: Lacrimoso giorno, quello / in cui risorgerà dalla cenere (favilla) / l’uomo colpevole che deve essere giudicato (iudicandus, altro gerundivo che suggerisce l’idea di un evento necessario e inevitabile). Si rompe, a partire dal v. 54, lo schema metrico delle strofe a rima fissa. Questo verso rima infatti con il primo della strofa seguente, mentre i due versi finali non rispettano né la rima né la misura dell’ottonario.

19 huic… requie: perciò (ergo), o Dio, abbi pietà di lui (huic, riferito all’«homo reus» del v. 54). / O pietoso Gesù Signore / dona a loro la pace. Gli ultimi versi recano traccia evidente della destinazione liturgica della sequenza, che veniva intonata nell’ufficio dei Defunti.



Livello metrico
Proponiamo il Dies irae direttamente nell’originale latino (peraltro facilmente comprensibile) per l’impossibilità di rendere accettabilmente in traduzione il ritmo del verso e la pregnanza di alcune espressioni.
Il metro utilizzato, basato su versi isosillabici scanditi da accenti fissi, è lontanissimo da quelli classici: la metrica quantitativa latina è stata definitivamente superata. Il testo è diviso in strofe di tre ottonari, che hanno tutte, ad eccezione dell’ultima, le medesime caratteristiche: in ogni strofa i versi presentano la stessa rima (raramente sostituita dall’assonanza); gli accenti cadono sempre sulle sillabe dispari, conferendo al componimento un andamento incalzante; ritmo e sintassi coincidono perfettamente (ogni strofa è occupata da un solo periodo).
L’uso della rima e del verso ottonario denotano una sensibilità metrica del tutto moderna (la metrica classica latina si basava infatti sulla quantità delle sillabe anziché sull’accento, e non faceva ricorso alla rima). Il succedersi senza posa di rime e accenti sottolinea con forza la drammaticità del tema trattato: l’attesa del giorno del giudizio, del terribile momento in cui Dio dividerà i buoni dai malvagi.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Sul piano sintattico è piuttosto ridotto il ricorso alla subordinazione, che si limita quasi esclusivamente a semplici proposizioni relative e temporali e a qualche subordinata implicita espressa con il participio futuro. La sensazione che il Giudizio universale sia un evento inevitabile, e anzi quasi prossimo, viene rafforzata dall’uso di alcune forme verbali; la più importante di queste forme è il participio futuro, usato sia autonomamente che nella “perifrastica attiva” (in unione cioè con il verbo esse, come ai vv. 4 e 5), con cui la lingua latina suggerisce l’imminenza di un’azione o la sua inevitabilità («est futurus» ed «est venturus» sono espressioni semanticamente assai più dense dei corrispondenti futuri semplici «erit» e «veniet»). Ai costrutti con il participio futuro fa da pendant l’uso del gerundivo, modo verbale che indica in forma passiva la stessa idea di necessità (l’espressione «iudicandus homo reus» di v. 54 potrebbe essere resa ad esempio con l’uomo colpevole che deve essere giudicato). Il latino di questo testo è nel complesso molto semplice e caratterizzato da una scelta lessicale essenziale.

Livello tematico
L’osservazione dei tempi verbali ci permette di dividere il testo in due blocchi principali, che sono nettamente distinti anche dal punto di vista tematico, più un terzo di minore lunghezza.
Nel primo blocco (vv. 1-21) prevale il tempo futuro (numerosi, oltre ai costrutti di cui si è sopra detto, sono i verbi all’indicativo futuro). Il tema centrale è la visione apocalittica del Giudizio universale, che pone l’uomo con tutta la sua miseria di fronte alla maestà di un Dio descritto con accenti veterotestamentari. L’angoscia della visione è resa anche dalla presenza di proposizioni esclamative (vv. 4-6) o interrogative (vv. 19-21).
Nel secondo blocco (vv. 25-51) prevale l’imperativo, che è per eccellenza il modo verbale della preghiera. Allo sgomento dinanzi alla potenza divina subentra la speranza nell’infinita misericordia del Creatore. In questo secondo blocco compaiono temi desunti dal Nuovo Testamento. I vv. 22-24 fanno da cerniera tra il primo e il secondo blocco: dapprima viene riaffermata la consapevolezza della terribile potenza di Dio («Rex tremendae maiestatis»); ma poi, tramite l’abbandono al mistero della grazia («qui salvandos salvas gratis») si apre la strada alla speranza e quindi alla preghiera vera e propria («salva me, fons pietatis»). Non viene certo meno il senso dell’inadeguatezza dell’uomo (che anzi è nuovamente sottolineata con forza al v. 40); ma il pessimismo sulla sua natura è rischiarato dal sacrificio di Cristo, che ha patito sulla croce proprio per salvare l’umanità dal peccato (vv. 25-30).
Il terzo blocco, il più breve, occupa i vv. 52-57. Esso ripresenta sinteticamente l’alternanza tra il motivo del timore (espresso con l’indicativo futuro e il gerundivo, vv. 52-54) e quello della preghiera e della speranza (espresso con l’imperativo, vv. 55-57). Gli ultimi tre versi, che si discostano metricamente dal resto del componimento, testimoniano della natura liturgica di questo testo (che veniva intonato nell’ufficio dei Defunti).
Il Dies irae ha una straordinaria importanza religiosa e culturale (il fatto che sia inserito nella messa da Requiem lo rende ad esempio un testo importantissimo anche per la storia della musica). Incerte ne sono l’attribuzione e la datazione. La sua forte drammaticità sembra a prima vista lontana dai rasserenanti accenti francescani. Si potrebbe osservare che neanche nel Cantico di frate Sole l’ottimismo verso le creature può essere esteso senza riserve all’uomo; ma è anche vero che in Francesco la possibilità che l’uomo si salvi sembra collegarsi anche alla sua opera, alla sua capacità di conformarsi al volere divino («beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, / ka la morte secunda no ’l farrà male», vv. 30-31 [C1]); invece in questo testo, da molti attribuito a Tommaso da Celano, la salvezza appare legata soltanto all’imperscrutabile disegno divino («qui salvandos salvas gratis», v. 23), mentre l’indegnità dell’uomo viene più volte sottolineata con accenti assai più cupi di quelli usati dal Santo.




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