I3
Giovanni Boccaccio
Volgiti, spirto affaticato, omai
Rime 114

Volgiti, spirto affaticato, omai,
volgiti, e vedi dove sei trascorso,
del desìo folle seguitando ’l corso,
e col piè nella fossa ti vedrai1.

Prima che caggi, svegliati: che fai? 5
Torna a Colui, il quale il ver soccorso
a chi vuol presta e libera dal morso
della morte dolente, alla qual vai2.

Ritorna a Lui, e l’ultimo tuo tempo
concedi almeno al suo piacer, piangendo 10
l’opere mal commesse nel passato3.

Né ti spaventi il non andar per tempo,
ch’Ei ti riceverà, ver te facendo
quel che già fece all’ultimo locato4. 14




1 Volgiti… vedrai: Ormai (omai) voltati, o spirito affaticato, voltati, ed osserva a che punto sei arrivato (dove sei trascorso), assecondando l’impeto (corso) del folle desiderio (desìo), e ti vedrai con il piede nella fossa. Si noti l’iperbato del v. 3.

2 Prima… vai: Prima che tu cada (caggi), svegliati; che cosa fai? Ritorna verso Colui il quale presta a chi <lo> vuole il vero soccorso (perifrasi per indicare Dio) e libera <l’uomo> dal morso della morte che addolora (dolente) <in eterno> (cioè dalla dannazione dell’anima), verso la (alla) quale tu stai andando. Ai vv. 6 e 7 è presente un iperbato.

3 Ritorna… passato: Ritorna a Dio, e concedi almeno l’ultimo periodo (tempo) <della> tua <vita> a ciò che a Lui piace (al suo piacer), biasimando le azioni che hai mal commesso nel passato.

4 Né ti… locato: E non ti spaventi il fatto che ti sia pentito tardi (il non andar per tempo), perché (ch’) Egli ti accoglierà, compiendo verso (ver) di te ciò che egli compì verso l’ultimo <operaio> ingaggiato (ultimo locato). L’ultimo verso richiama i Vangeli, in particolare la parabola della vigna (Matteo, XX, 1-16), in cui si racconta che l’operaio ingaggiato per ultimo riceverà lo stesso compenso di coloro che hanno iniziato a lavorare per primi.



Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e ripetute nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA; CDE, CDE.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Dal punto di vista sintattico, il sonetto può dividersi in due blocchi. Nei vv. 1-5 sono presenti alcune proposizioni coordinate che rendono il ritmo concitato e incalzante (si vedano in particolare i vv. 1-2). A partire dal v. 6 la struttura dei periodi diviene più complessa, producendo un rallentamento del ritmo. Questa divisione riflette la differenza tematica tra i due blocchi: il primo si incentra infatti sul peccato, sulla necessità di riconoscerlo e di pentirsene prima che giunga la morte. Il secondo mette invece al centro il tema della redenzione, pur nella consapevolezza (sottolineata dai vv. 8 e 11 e dalla ripetizione della rima «tempo» ai vv. 9 e 12) che essa deve essere ancora raggiunta. Essendo dunque il testo un invito al pentimento che il poeta rivolge a se stesso (o più precisamente al proprio spirito), si comprende perché, tra i modi verbali, sia dominante l’imperativo, che si incontra già nell’incipit («Volgiti»). Lo stesso verbo si ripete, per anafora, nel secondo verso, dove a esso se ne aggiunge un secondo, collegato al precedente dall’allitterazione («Volgiti e vedi»). La tendenza alla ripetizione degli stessi termini, che conferisce a questa prima parte del sonetto un andamento quasi di minaccia, è confermata anche dalla rima ricca dei vv. 2 e 3, che oltretutto riguarda due parole etimologicamente connesse tra loro («trascorso» : «corso»).
Il primo verso della seconda quartina ripropone un imperativo, collocato stavolta in posizione centrale, isolato dalla punteggiatura e seguito da un’interrogativa diretta («svegliati: che fai?»).
Il successivo imperativo «Torna» (v. 6) introduce poi il secondo blocco tematico, incentrato sul tema del pentimento, della riflessione e della speranza: la presenza di due enjambements consecutivi (vv. 6-7, vv. 7-8) testimonia di una sintassi più ampia e complessa rispetto a quella della prima parte. Lo stile incentrato sulla ripetizione non viene tuttavia abbandonato: la parola-rima con cui si apre la prima terzina è infatti identica a quella con cui inizia la seconda: e si tratta di un termine («tempo»), strettamente connesso con l’inquieta meditazione del primo blocco tematico.
Nella prima terzina ricorre nuovamente l’imperativo; il «Ritorna» del v. 9 è una variazione del «Torna» del v. 5. Il successivo imperativo «concedi» (v. 10) è separato da un enjambement dal suo complemento oggetto «l’ultimo tuo tempo» (v. 9), che lo precede per iperbato. Il gerundio che lo segue e ne dipende («piangendo») è a sua volta separato da un altro enjambement dal proprio complemento oggetto («l’opere», v. 11). Ancora una volta, al tono della più pacata e speranzosa meditazione corrisponde una sintassi più ampia e meno concitata.
La terzina conclusiva è dominata da una doppia negazione («né ti spaventi», «non andar»). Da notare il gioco dei tempi verbali, che sembra sottolineare l’eterna bontà divina: oggi lo spirito del poeta non deve temere («spaventi» è congiuntivo presente con valore esortativo), perché Dio lo «riceverà» (futuro semplice indicativo), come nel passato ha ricevuto l’ultimo operaio («fece», indicativo passato remoto).
Nel complesso, la struttura di questo sonetto appare assai distante da quella prevalentemente narrativa o descrittiva che avevamo riscontrato in altre poesie dello stesso autore [I1, I2].

Livello tematico
Per inquadrare questo testo è opportuno ricordare che nel 1364 Boccacco ricevette una lettera di Petrarca che cercava di distoglierlo dall’intento di distruggere il Decameron, l’opera che l’avrebbe reso famoso nel mondo. Il documento testimonia il fatto che in quegli anni Boccaccio fu colto da scrupoli morali, al punto da meditare di eliminare le sue produzioni profane, che celebravano gli agi, il lusso e la mondanità (e comunque mettevano al centro della rappresentazione l’uomo anziché Dio), per avvicinarsi ad una vita contemplativa e spirituale. Il sonetto potrebbe essere databile a questo stesso periodo.
La lettura del testo sembra testimoniare che all’origine dello scrupolo religioso del poeta non stia tanto la scoperta rasserenante di Dio e della sua misericordia, quanto la paura della morte e della dannazione eterna. Il testo non è infatti una preghiera rivolta al Creatore, ma un dialogo interiore che ha al centro l’io del poeta, al cui «spirto affaticato» si rivolgono i verbi all’imperativo che lo esortano a cambiare vita e a sperare. Manca un’invocazione diretta a Dio padre, quale si trova nella liturgia (Padre Nostro, Miserere) e quale si riscontra in testi petrarcheschi vicini a questo per i temi trattati, come Padre del ciel, dopo i perduti giorni [H33]. Dio è infatti designato sempre alla terza persona («Colui», «Lui»), viene presentato attraverso un’ampia perifrasi (vv. 6-8), appare un’entità distante dall’uomo, al cui volere («piacer») cui si deve concedere «almeno» l’ultima parte della vita (v. 10).
E tuttavia, gli attributi del Creatore presentato in questo sonetto non sono solo quelli di una terribile giustizia percepita troppo tardi dall’uomo peccatore. Il Dio di cui parla il poeta è sempre quello del Nuovo Testamento, quello che è disposto a perdonare anche chi tarda a pentirsi. È per questo che il tema del timore viene gradualmente superato, come testimonia il suo ricorrere in forma negativa al v. 11 («Né ti spaventi»); e come conferma il distendersi, negli ultimi versi, del tono del componimento, che si chiude il consolante richiamo alla parabola della vigna (Matteo, XX, 1-16).




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