I10a
Giovanni Boccaccio
La peste a Firenze
Decameron Introduzione, 1-3

Comincia la Prima giornata del Decameron, nella quale, dopo la dimostrazione fatta dall’autore1, per che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare2 a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno3.

1. Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa, la quale essa porta nella sua fronte4. Ma non voglio per ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi5, quasi6 sempre tra’ sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare7. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza8. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono terminate9. A questa brieve noia10 (dico brieve in quanto poche lettere si contiene11) seguita prestamente la dolcezza e il piacere il quale io v’ho davanti promesso e che forse non sarebbe da così fatto inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo, io l’avrei volentier fatto12: ma per ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle mi conduco13.
2. Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza14: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata15. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da officiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare16. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature17, delle quali alcune crescevano come una comunal18 mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli19. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse20. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno21.
3. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto22: anzi, o che la natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano23. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate24. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare25. Maravigliosa26 cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo27, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi28. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse29. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza30: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra31.






1 la dimostrazione fatta dall’autore: si tratta del Proemio in cui Boccaccio, in prima persona, ha esposto i tre concetti chiave in cui si sintetizza il fine dell’opera («diletto», «utile consiglio» «passamento di noia» [I9, 4]).

2 per che cagione… ragunare: per quale motivo (cagione) sia accaduto (avvenisse) che quelle persone di cui si parlerà in seguito (che appresso si mostrano) si siano dovute (doversi) adunare (ragunare).

3 si ragiona… a ciascheduno: si parla di quello che più piace (aggrada) a ciascuno (ciascheduno). Nella prima giornata, a differenza di quanto di norma accadrà nelle successive, non viene stabilito un tema fisso per tutte le novelle.

4 Quantunque… fronte: Ogni volta che (Quantunque volte), o graziosissime donne, riflettendo (meco pensando) su quanto voi siate per natura tutte disposte alla compassione (pietose), sempre (tante, riferito a «volte») riconosco che questa (la presente) opera ai vostri occhi (al vostro iudicio) avrà un inizio triste e doloroso (grave e noioso principio), quale è il doloroso ricordo (ricordazione) della trascorsa pestilenza (pestifera mortalità trapassata) che fu dannosa per tutti coloro che (universalmente a ciascuno che) la videro o diversamente la conobbero, <ricordo > che (la quale, riferito a «ricordazione») questo libro (essa, riferito ad «opera») porta scritto nel suo principio (porta nella sua fronte).

5 che questo… spaventi: che questo (il «grave e noioso principio») vi dissuada (spaventi) dal continuare la lettura.

6 quasi: come se.

7 leggendo dobbiate trapassare: doveste passare con la lettura.

8 Questo orrido… gravezza: Questo inizio orribile sarà per voi non diverso (vi fia non altramenti) <da ciò> che <è> per i viandanti (che a’ camminanti) una montagna aspra e difficile da salire, presso la quale si trovi (sia reposto) una pianura (piano) bellissima e gradevole, la quale <pianura> maggiormente risulta (tanto più viene) per loro piacevole quanto maggiore è stata la difficoltà (gravezza) nel salire e nello scendere.

9 E sì come… terminate: E così come il dolore segue (occupa) il momento culminante (la estremità) dell’allegria, così le vicende tristi (le miserie) vengono concluse dalla gioia che sopraggiunge. Riferimento biblico (Proverbi, XIV, 13): «extrema gaudii luctus occupat».

10 noia: dolore, sofferenza.

11 breve… si contiene: breve perché è descritto (si contiene) in poche parole (lettere, sineddoche).

12 E nel vero… fatto: E in verità, se io avessi potuto condurvi convenientemente (onestamente… menarvi) dove (a quello che) io desidero attraverso una via diversa (per altra parte) da un sentiero così aspro come sarà (fia) questo, io lo avrei fatto volentieri.

13 ma per ciò… conduco: ma poiché senza ricordarle (senza questa ramemorazion) non si poteva spiegare (dimostrare) quale fosse la ragione per la quale (la cagione per che) le cose che qui di seguito si leggeranno sono accadute, mi accingo (mi conduco) a descriverle quasi costretto dalla necessità.

14 Dico… pestilenza: Dunque dico (dico adunque) che già gli anni trascorsi dalla benefica (fruttifera) Incarnazione del figlio di Dio erano giunti al numero di 1348, quando nella egregia città di Firenze (Fiorenza, forma latineggiante), la più bella di tutte le città italiche, si diffuse (pervenne) l’epidemia di peste (la mortifera pestilenza). A Firenze l’inizio dell’anno era calcolato dall’Incarnazione o Annunciazione (25 marzo) e non dalla Natività.

15 la quale… ampliata: la quale (riferito a «mortifera pestilenza»), <nata> per influsso dei corpi celesti (corpi superiori) o mandata tra (sopra) i mortali dalla giusta ira di Dio come punizione (correzione) delle nostre azioni ingiuste, iniziata alcuni anni prima (alquanti anni davanti) in Asia (nelle parti orientali), dopo aver privato quei territori di una quantità innumerevole di uomini (viventi), dilagando (continuandosi) senza arrestarsi (ristare) da una regione all’altra, si era sciaguratamente diffusa (ampliata) in Occidente. La peste – che il narratore ipotizza possa essersi diffusa per un influsso negativo degli astri ovvero per volontà divina – si originò in realtà nel 1346 in Asia e poi giunse in Sicilia, veicolata dai topi che venivano trasportati sulle navi provenienti dal Mar Nero. Da qui si propagò verso l’Europa continentale.

16 E in quella… dimostrare: E poiché non era efficace (non valendo) contro di essa (in quella) nessuna forma di prevenzione (alcun senno) né alcuna disposizione (provedimento) degli uomini, in base a cui, per opera di incaricati (oficiali) preposti a questo compito (sopra a ciò ordinati) la città fu depurata da molti rifiuti, <fu> vietato a ogni ammalato di entrarvi e furono dati molti consigli a tutela (conservazion) della sanità, e <poiché> nemmeno <erano efficaci> (né ancora, riferito a «non valendo») le umili preghiere (supplicazioni) organizzate (ordinate) non una sola volta, ma molte e in forma di processione, o in altri modi rivolte (in altre guise fatte) a Dio dalle persone devote, quasi all’inizio della primavera dell’anno prima indicato (predetto: il 1348) <la peste> cominciò a manifestare (dimostrare) i suoi effetti dolorosi in modo orribile.

17 E non come … enfiature: Ed <essa non si manifestò> come aveva fatto in Oriente, dove quando a qualcuno usciva sangue dal naso era segno evidente di morte inevitabile: ma all’inizio (nel cominciamento d’essa) comparivano (nascevano) ugualmente negli uomini e nelle donne alcuni gonfiori (certe enfiature) o nell’inguine (anguinaia) o sotto le ascelle (ditella). In Oriente la sintomatologia della peste era data da emorragia nasale, in Occidente il morbo veniva annunciato dal gonfiore delle ghiandole linfatiche.

18 comunal: comune.

19 le quali… gavoccioli: che le persone comuni (i volgari) chiamavano “gavoccioli” (il termine, derivato dal latino medievale, significava matasse e quindi bubboni).

20 E dalle due parti… e spesse: E partendo dalle due parti del corpo prima nominate (predette: l’inguine e le ascelle) in breve tempo (infra brieve spazio) il già citato bubbone mortale cominciò a nascere e a crescere (venire) in ogni parte del corpo (di quello) indistintamente (indifferentemente); e in seguito (da questo appresso) il sintomo (qualità) della malattia prima citata (predetta infermità) cominciò a mutarsi in macchie nere o livide, che a molti apparivano nelle braccia, nelle cosce e in ogni parte del corpo, a qualcuno (a cui) grandi e rare, a qualcun altro piccole e numerose (minute e spesse).

21 E come… venieno: E come inizialmente (primieramente) il bubbone era divenuto, ed ancora lo era, indizio sicurissimo di prossima morte, così le ecchimosi (queste) lo erano per ogni persona a cui venivano.

22 A cura… profitto: E per la cura di queste malattie non sembrava che fosse sufficiente (valesse) o che portasse giovamento (facesse profitto) né la dottrina (consiglio, latinismo) dei medici (medico è al singolare per sineddoche) né la potenza (virtù) di alcuna medicina.

23 anzi… morivano: al contrario (anzi), non solo ne guarivano pochi (non solamente pochi ne guarivano: la proposizione principale, che per ragioni di chiarezza parafrasiamo per prima, è collocata alla fine di questo complesso periodo), anzi quasi tutti morivano entro (infra) il terzo giorno dall’apparizione dei sintomi (segni) sopra indicati, chi più rapidamente (tosto) e chi meno, e i più senza febbre o altra complicazione (accidente), o <per il fatto> che (o che: parafrasiamo qui di seguito le proposizioni subordinate, che dipendono direttamente o indirettamente dal verbo «morivano», collocate dall’autore nella parte iniziale del periodo) la natura della malattia non lo permetteva (nol patisse) o <per il fatto> che l’ignoranza di coloro che curavano (medicanti: il termine ha sfumatura spregiativa perché, come risulta dall’inciso che segue, indica anche persone che prestano le cure senza alcuna qualifica) – tra i quali, a parte gli (oltre al numero degli) scienziati, era divenuto grandissimo il numero tanto delle femmine quanto degli uomini che non avevano mai avuto (senza avere… avuta giammai) alcuna conoscenza (nozione) di medicina – non comprendesse (conoscesse: il soggetto è «l’ignoranza») da quale causa (da che) <il contagio> avesse origine (si movesse) e di conseguenza non prendesse contro di esso (vi) dovuto rimedio (debito argomento).

24 E fu… avvicinate: E questa pestilenza fu di una forza inusuale (di maggior forza) perché (per ciò che) essa a causa dei contatti reciproci (per lo comunicare insieme) dai malati di tale malattia (dagli infermi di quella) si diffondeva (s’avventava; il verbo indica l’aggressività del morbo) sui sani, non diversamente da come (non altramenti che) fa il fuoco sulle cose secche e unte quando a esso vengono molto avvicinate.

25 E più avanti… transportare: E comportò un male ancora maggiore (più avanti ancora ebbe di male): poiché non soltanto il parlare e l’avere contatti (l’usare) con i malati dava ai sani malattia o causa di morte uguale (comune) <a quella dei malati>, ma perfino (ancora) il toccare i vestiti (panni) o qualunque cosa <fosse> stata toccata (stata tocca: il participio passato senza suffisso è usato spesso da Boccaccio) o usata da quei malati sembrava portare attraverso di sé (seco) quella stessa (cotale) malattia (infermità) verso colui che la toccava (nel toccator).

26 Meravigliosa: Incredibile.

27 il che… di crederlo: la qual cosa, se non fosse stata vista dagli occhi di molti e dai miei <occhi>, a malapena avrei il coraggio (appena che io ardissi) di crederlo… L’uso del congiuntivo, in luogo del condizionale, nell’apodosi del periodo ipotetico, potrebbe spiegarsi sottintendendo un’espressione come «sarebbe possibile», da cui far dipendere «che io ardissi».

28 non che… udito l’avessi: e ancor meno <avrei il coraggio> di scriverlo, quantunque l’avessi sentito <raccontare> da <persona> degna di fede (fededegna, latinismo tuttora in uso nel lessico giuridico).

29 Dico che… uccidesse: Dico che la capacità (qualità) di contagio (nello appiccarsi da uno a altro) della pestilenza di cui ho parlato (narrata) fu di tale potenza (efficacia), che non soltanto l’uomo <la contagiava> all’uomo, ma <tale capacità di contagio> causò (fece) spesso (assai volte) in modo evidente (visibilmente) questo <fenomeno>, che è molto più <sorprendente>, cioè che un oggetto (la cosa) di un uomo <che era> stato malato, o <era> morto di tale malattia, toccata da un altro animale di specie diversa dall’uomo, non solo gli contagiasse la malattia (dell’infermità il contaminasse), ma uccidesse quell’<animale> in brevissimo tempo (infra brevissimo spazio).

30 Di che… esperienza: Della qual cosa (Di che) io stesso (i miei occhi, metonimia), come poco fa si è detto, ebbi un giorno in particolare (tra l’altre volte un dì) la seguente esperienza (così fatta esperienza).

31 che… caddero in terra: che, essendo <stati> gettati sulla pubblica via gli stracci di un povero uomo morto di tale malattia, ed essendosi imbattuti (avvenendosi) in essi due porci, e avendoli quei <porci> secondo la loro abitudine (costume) toccati a lungo (molto) prima con il muso (grifo) e poi con i denti, ed essendoseli strofinati sulle guance (scossiglisi alle guance) poco dopo (in piccola ora appresso), dopo qualche contorsione (avvolgimento), come se avessero preso del veleno, entrambi (amenduni) caddero a terra morti sopra gli stracci afferrati (tirati) con proprio danno (mal).



L’Introduzione al Decameron presenta una struttura tripartita. Ne analizziamo qui la prima parte, che consiste in un breve prologo e nella descrizione fisiologica della peste che colpì Firenze nel 1348; seguiranno la descrizione degli effetti sociali del contagio [I10b] e il racconto di come si sia formata quell’«allegra brigata» di giovani che diverranno poi i narratori delle novelle [I10c].

Prologo
Nel Prologo [1] l’autore-narratore, rivolgendosi a un pubblico femminile, quelle «graziosissime donne» cui ha già chiarito di voler rivolgere il Decameron [I9], presenta il «grave e noioso principio» dell’intera opera, cioè la «pestifera mortalità trapassata». Vengono così indicate le coordinate storiche necessarie a comprendere appieno il significato del Decameron. Francesco De Sanctis parlerà di quest’opera come di una «commedia umana», sottolineando al tempo stesso l’analogia e la differenza con il poema dantesco. La definizione di “commedia”, nel senso in cui il termine era usato nel Medioevo, può in effetti adattarsi all’opera di Boccaccio perché essa, come quella di Dante, perviene a una conclusione positiva partendo da un incipit doloroso. Ma l’azione in Boccaccio – a differenza di quanto avviene in Dante – è tutta collocata nella concreta realtà terrena. Boccaccio, presentando la peste come un evento eccezionale di cui non è possibile spiegare univocamente la causa, sottolinea a ogni modo la necessità strutturale di tale «orrido cominciamento» attraverso una similitudine con il viandante di montagna, che saprà meglio apprezzare la vetta raggiunta se vi sarà pervenuto percorrendo un sentiero difficile ed erto. La similitudine del viaggio lascia trasparire un secondo modello oltre a quello di Dante: si tratta del Petrarca delle Familiares (si pensi in particolare alla lettera sull’ascesa al monte Ventoso [H12]), da cui sembra provenire l’immagine della scalata verso vette difficili raggiungibili solo per sentieri impervi.

La descrizione fisiologica della peste
Un’espressione retorica solenne, latineggiante («Dico adunque»), volta a conferire al discorso un tono elevato secondo quanto stabilito dall’ars dictandi, apre la descrizione del diffondersi dell’epidemia. Per definire in modo realistico e storicamente esatto l’accadimento, Boccaccio ne fornisce subito le coordinate storiche («erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto») e geografiche («quando nella egregia città di Fiorenza…»), a ribadire che si sta qui narrando un fatto realmente accaduto, testimoniato dai documenti e di cui ha avuto diretta esperienza il narratore stesso. Quest’ultimo infatti garantisce la veridicità di alcuni tra i dettagli più impressionanti, invocando direttamente la testimonianza dei propri occhi (come nell’episodio dei due porci collocato alla fine di questo brano). La descrizione della peste può apparire più opera di un cronista che di un narratore: Boccaccio infatti esprime con linguaggio e stile adeguati un fatto realmente accaduto. Ma al tempo stesso, come ogni scrittore medievale fedele alla tecnica dell’imitatio, egli non dimentica gli esempi classici di descrizione letteraria delle pestilenze1.

La solennità dello stile
Il Decameron si presenta nel suo complesso come un’opera pluristilistica, capace di alternare diversi registri in coerenza con la varietà dei temi trattati. Nell’Introduzione possiamo riconoscere uno stile solenne, di intonazione alta. Prendiamo in esame il passo con cui si apre la descrizione fisiologica della peste («Dico adunque… ampliata» [2]). La descrizione inizia con due periodi ipotattici – più breve il primo, più ampio e complesso il secondo – divisi da un punto e virgola. Numerosi sono gli aggettivi che connotano la peste come un evento eccezionale e catastrofico (oltre a «mortifera», si notino «inique» e «inumerabile»; funzione simile ha l’avverbio «miserabilmente»). La sintassi è latineggiante: già nel primo dei due periodi è possibile evidenziare l’inversione dell’ordine degli elementi della frase («pervenne la mortifera pestilenza»). Nel secondo periodo, tipicamente latina appare la collocazione del nesso relativo «la quale» a inizio di frase, subito dopo il punto e virgola: il verbo che ha «la quale» come soggetto comparirà solo a fine enunciato («s’era ampliata»), dopo una serie di subordinate implicite espresse al gerundio o al participio. Il ritmo del testo è garantito da raffinati espedienti retorici come il cursus velox che incontriamo al termine della prima frase («mortìfera pestilénza»)2. Latineggiante è anche il collegamento con la frase successiva (la congiunzione «E» introduce una proposizione causale espressa con il gerundio): lo stile solenne prevale infatti anche negli altri periodi che descrivono la pestilenza osservandola con l’occhio attento del patologo, e si ritrova nella rappresentazione fortemente realistica della diffusione dei «gavoccioli» e degli altri sintomi del male.

La collocazione del brano nell’Introduzione
La descrizione degli effetti fisiologici della peste non è fine a se stessa e va inquadrata nel contesto di questa ampia Introduzione. Non è causale la similitudine che avvicina questo «orrido cominciamento» del Decameron a una montagna da scalare con fatica per potere poi godere del «bellissimo piano e dilettevole» che è posto al di là di essa [1]. L’epidemia è infatti l’ostacolo che la Natura e la Fortuna impongono all’uomo e al dispiegarsi della sua natura sociale. La seconda parte dell’Introduzione [I10b] sarà pertanto dedicata ai devastanti effetti sociali che il diffondersi del contagio produce sulla cittadinanza fiorentina.


1 Oltre a quello greco di Tucidide (Guerra del Peloponneso, II, 49 ss.), scrittore del V secolo a.C. di cui Boccaccio poteva avere conoscenza indiretta, e oltre al modello latino di Lucrezio (De Rerum Natura, VI), si può richiamare l’opera di Paolo Diacono (Historia Langobardorum, II, 4), scrittore tardolatino dell’VIII sec. d.C. che narrò gli eventi relativi all’epidemia diffusasi sotto Giustiniano (565).

2 Si definisce cursus la «collocazione ritmica delle due ultime parole di una frase. Si distinguono quattro tipi di cursus medievale: a) il cursus planus: esempi di Dante: cogitatióne metíri; siámo suggétti; b) il cursus velox: esempi di Dante: consília respondémus; desíderan(o) di sapére; c) il cursus tardus: esempi di Dante: prodésse tentábimus; párte dell’ánima; d) il cursus trispondaicus; es.: ésse videátur» (Angelo Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, Milano, Mondadori, 1978). Nel testo qui analizzato si possono trovare esempi di cursus planus come «caddero in terra» o «toccator trasportare».



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