DIV12
Dante Alighieri
La decadenza dell'Impero
Divina Commedia Paradiso, Vi, 1-12; Purgatorio, VI, 58-117; Purgatorio, XVI, 85-114; Paradiso, XXX, 124-148

[Paradiso, canto VI, vv. 1-12]
Il canto VI del Paradiso (ambientato nel cielo di Mercurio, tra gli spiriti che operarono il bene per desiderio di gloria) è interamente occupato dalle parole di Giustiniano, imperatore di Bisanzio dal 527 al 565 e artefice di una codificazione del diritto romano ancor oggi considerata fondamentale per la civiltà giuridica europea. All’inizio del canto, per presentare la propria figura, Giustiniano esprime un giudizio negativo sull’operato politico di Costantino.

«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse, 3

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo1; 6

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne2. 9

Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano3». 12

[Purgatorio, canto VI, vv. 58-117]
Tutti i sesti canti della Commedia ruotano intorno a una tematica politica. Nell’Inferno il tema centrale è Firenze, nel Paradiso è l’Impero. Nel Purgatorio invece l’attenzione è concentrata sulla situazione dell’Italia, che può essere illustrata solo se si fa anche riferimento alla crisi dell’Impero e alla degenerazione della Chiesa. Dante e Virgilio, che stanno cercando la strada più agevole per iniziare la salita sulla montagna, incontrano il trovatore Sordello da Goito. Appena costui comprende di aver davanti un suo concittadino (egli è infatti mantovano come Virgilio), gli manifesta il proprio affetto con un gesto che commuove Dante. Il poeta riflette amaramente sul contrasto tra l’amore di patria manifestato da Sordello e la condizione dell’Italia lacerata da lotte tra città e tra fazioni: una decadenza che Dante attribuisce in primo luogo al disinteresse dell’imperatore Alberto per quella che dovrebbe essere la sede naturale del suo potere («’l giardin de lo ’mperio»).

Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta»4. 60

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda5! 63

Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa6. 66

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando, 69

ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese 7; e ’l dolce duca incominciava
«Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita, 72

surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava8. 75

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello9! 78

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa; 81

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra10. 84

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode11. 87

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno12. 90

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota, 93

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella13. 96

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni, 99

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia14! 102

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto15. 105

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti16! 108

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura17! 111

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?18». 114

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama19. 117

[Purgatorio, canto XVI, vv. 85-114]
Nel canto XVI del Purgatorio, nel girone degli iracondi, Dante incontra Marco Lombardo, un personaggio per noi difficile da identificare con esattezza, ma che comunque si caratterizza come «portavoce della dottrina etico-politica e dei sentimenti polemici dello scrittore» (Sapegno). Il discorso di Marco ricalca per molti versi l’argomentazione del De Monarchia circa le finalità per cui è stato istituito il potere temporale [G35]: esso parte dalla dottrina dell’anima e del libero arbitrio per soffermarsi sulle cause per cui l’uomo cade spesso nel peccato. È proprio dall’incapacità umana di discernere autonomamente il vero bene che deriva la necessità di una convivenza civile regolata da leggi. Il governo di essa va demandato al potere imperiale, che deve essere del tutto indipendente da quello del papa. Anzi, è proprio la confusione tra la sfera temporale e quella spirituale la causa principale della decadenza dell’umanità. Il discorso di Marco si conclude enunciando la dottrina dei due soli, con la quale Dante replica alle tesi dei decretalisti (secondo i quali il potere temporale, assimilato alla luna, era semplicemente un riflesso di quello spirituale, rappresentato dal sole).

Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia, 87

l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla20. 90

Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore21. 93

Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver che discernesse
de la vera cittade almen la torre22. 96

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ’l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse23; 99

per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede24. 102

Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta25. 105

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo26. 108

L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada27; 111

però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’erba si conosce per lo seme28. 114

[Paradiso, canto XXX, vv. 124-148]
Nel canto XXX del Paradiso Dante si trova nell’Empireo, cielo immateriale che costituisce la vera e definitiva sede dei beati. Qui Beatrice gli indica il seggio riservato ad Arrigo VII, imperatore che meriterà questo premio per il suo tentativo – seppur destinato a fallire – di restaurare il proprio potere in Italia. L’insuccesso dell’opera di Arrigo è attribuito al papa simoniaco Clemente V, di cui Beatrice ribadisce la condanna con puntuali riferimenti al canto XIX dell’Inferno (ricordando anche che la stessa dannazione toccherà a Bonifacio VIII [DIV9a]). E sono queste le ultime parole pronunciate da Beatrice nel Paradiso.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna, 126

qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Beatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole29! 129

Vedi nostra città quant’ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira30. 132

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni, 135

sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta31. 138

La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia32. 141

E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino33. 144

Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto, 147

e farà quel d’Alagna intrar più giuso34».






1 Poscia che Costantin… prima uscìo: «Dopo che Costantino trasportò (volse) <da Roma a Bisanzio> l’aquila (simbolo dell’Impero) lungo il percorso <da occidente a oriente> inverso a quello del sole (contr’al corso del ciel), che essa (l’aquila imperiale) aveva seguito dietro l’antico <eroe> che sposò (tolse) Lavinia (la perifrasi designa Enea, progenitore di Roma, che provenendo da Troia aveva ripercorso il naturale tragitto del sole da oriente a occidente), per oltre duecento anni (cento e cent’anni e più) l’uccello <simbolo del potere> voluto da Dio si trattenne all’estremità (stremo) <orientale> dell’Europa, vicino ai monti (della Troade) dai quali in origine proveniva (prima uscìo)». La descrizione geografica del viaggio dell’aquila, che con Enea segue il cammino del sole e con Costantino si rivolge invece in senso contrario, va letta anche allegoricamente: il viaggio da Troia al Lazio che portò alla fondazione di Roma obbediva a un disegno provvidenziale, mentre il trasferimento della sede imperiale a Bisanzio, località non molto lontana da Troia (trasferimento connesso con la nascita del potere temporale della Chiesa) appare come un’inversione dell’ordine voluto dal cielo. La terzina contiene un’imprecisione cronologica, in quanto in realtà tra il trasferimento dell’impero a Bisanzio ad opera di Costantino (330) e l’anno dell’ascesa al trono di Giustiniano (527) passarono meno di due secoli. Tuttavia la cronologia medievale – avallata tra gli altri da Brunetto Latini – collocava i due eventi rispettivamente nel 333 e nel 539.

2 e sotto l’ombra… in su la mia pervenne: «e <l’aquila imperiale>, sotto l’ombra delle sacre ali (penne, sineddoche) rimanendo in Oriente () governò il mondo passando da imperatore a imperatore (di mano in mano) e, attraverso questi cambiamenti (sì cangiando) pervenne nelle mie mani». Il potere imperiale non appartiene personalmente ai singoli imperatori, che sono dei semplici portatori di esso (e dunque dell’aquila che lo rappresenta, e che infatti costituisce il soggetto del verbo «governò»)

3 Cesare fui… il troppo e ’l vano: «Fui imperatore (Cesare fui: antonomasia) e sono Giustiniano che, per volontà dello Spirito Santo (primo amor; cfr. Inferno, III, 6) che mi ispira (ch’i’ sento), tolsi (trassi) dalle leggi ciò che vi era di superfluo (troppo) e ripetitivo (vano)». Nel v. 10, costruito a chiasmo, Giustiniano dichiara con il verbo al presente la propria identità personale – che appartiene alla sua natura eterna – mentre ricorda con il verbo al passato la sua dignità imperiale, estintasi con la vita terrena. Il v. 12 fa riferimento al Corpus iuris civilis, con cui Giustiniano fornì la prima organica sistemazione del diritto romano, organizzandolo in un codice che avrebbe fornito la base per la futura legislazione europea.

4 Ma vedi là… più tosta: «Ma guarda là un’anima che, rimanendo (posta) tutta sola (sola soletta, falso vezzeggiativo con funzione intensiva), guarda attentamente (riguarda) verso di noi: quella ci (ne) indicherà (’nsegnerà) la via più rapida (tosta) <per salire la montagna>». Queste parole sono pronunciate da Virgilio.

5 Venimmo a lei… onesta e tarda: Giungemmo presso di lei: o anima di un uomo settentrionale (lombarda; l’aggettivo designava nel Medioevo un’ampia area geografica comprensiva sia dell’attuale Lombardia che della stessa Toscana; qui Dante, comportandosi da narratore onnisciente, apostrofa il personaggio mostrando di conoscere in anticipo quale sia la sua patria), come te ne stavi fiera (altera) e disdegnosa, e dignitosa (onesta) e pacata (tarda) nel movimento degli occhi! L’aspetto dignitoso e la lentezza dello sguardo caratterizzano spesso nella Commedia la virtù della magnanimità; nel Limbo, i grandi dell’antichità hanno infatti «occhi tardi e gravi» (Inferno, IV, 112).

6 Ella non ci dicea… quando si posa: Essa (riferito all’«anima lombarda», con passaggio dalla seconda alla terza persona) non ci diceva nulla, ma ci lasciava (lasciavane) avvicinare (gir), solo seguendoci con lo sguardo (sguardando) alla maniera (a guisa) di un leone accovacciato (quando si posa). Il personaggio è caratterizzato da «immobilità piena di interiore tensione» (Sapegno), che esploderà in movimento drammatico ai vv. 72-75.

7 Pur Virgilio… ci ’nchiese: Tuttavia (Pur) Virgilio andò verso di (si trasse a) lei, pregando che ci mostrasse la strada più agevole per salire (la miglior salita); e quell’anima non rispose alla sua domanda, ma ci chiese notizie (’nchiese) del nostro paese <di origine> e della nostra condizione (vita).

8 e ’dolce duca… abbracciava: e la dolce guida (Virgilio) stava incominciando <a dire> «Mantova…» quando l’anima, <fino ad allora> tutta raccolta (romita) in se stessa, si alzò all’improvviso (surse) rivolta a lui dal luogo in cui prima si trovava, dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della tua <stessa> città (terra, metonimia)»; e ciascuno (l’un) abbracciava l’altro. Virgilio sta per citare l’epitaffio latino che si diceva fosse scritto sulla sua tomba, che cominciava con le parole “Mantua me genuit” [“Mantova mi generò”]. Ma il suo interlocutore, appena sente di avere di fronte un concittadino, non può trattenere la sua commozione. Il personaggio descritto in queste terzine è Sordello, un poeta nato a Goito (vicino a Mantova) che scriveva in lingua provenzale. Sordello, morto intorno al 1270, è noto per diverse rime amorose e per un componimento di ispirazione satirica (il Compianto in morte di ser Blacatz, 1236) che attaccava i sovrani dell’epoca.

9 Ahi serva Italia… bordello: Ahimé, Italia asservita <ai tiranni> (serva), albergo (ostello) di dolore, nave senza pilota (nocchiere) in mezzo a una grande tempesta, non <più> signora (donna) dei popoli (di province; riferimento alla gloria passata dell’Italia), ma luogo di corruzione (bordello)! L’amore per la patria che il gesto di Sordello evidenzia suscita in Dante, per contrasto, una riflessione sull’attuale condizione dell’Italia, che si esprime attraverso una serie di metafore («ostello», «nave», «donna», «bordello», tutte apposizioni di «Italia»). L’espressione «domina provinciarum» per designare l’Italia era assai comune nel Medioevo.

10 Quell’anima gentil… una fossa serra: Quell’anima nobile (gentil) fu così pronta (presta), solo a sentire il dolce nome (per il dolce suon) della sua città (terra), a far festa in quel luogo (quivi: in Purgatorio) al suo concittadino (cittadin), e <invece> ora al tuo interno (in te) i tuoi abitanti (li vivi tuoi) non stanno mai senza guerra, e quelli che sono circondati da uno stesso muro e da uno stesso fossato (quei ch’un muro e una fossa serra; perifrasi che significa gli abitanti di una stessa città) si dilaniano l’uno con l’altro (l’un l’altro si rode). La figura etimologica dei vv. 82-83 («te»… «tuoi») – richiamata anche nei versi successivi dal ripetersi delle forme pronominali «ti» e «te» – è parallela al poliptoto dei vv. 80-81 («sua»… «suo»). Tale parallelismo vale a sottolineare la contrapposizione tra queste due anime dell’oltretomba, che hanno mostrato tanto affetto reciproco per amor di patria, e le città italiane lacerate dall’odio di parte.

11 Cerca… di pace gode: Esamina (Cerca), o misera <Italia> le regioni costiere (le tue marine) lungo i litorali (intorno da le prode) e poi guarda le tue regioni interne (ti guarda in seno), <per vedere> se qualche parte di te gode di pace. Secondo la concezione politica di Dante, la pace può essere garantita solo dall’Impero.

12 Che val… la vergogna meno: A cosa è servito (Che val) per il fatto di averti dato le leggi (perché ti racconciasse il freno, lett. perché ti abbia sistemato le redini: inizia qui una lunga metafora in cui l’Italia è paragonata a una cavalla e le leggi sono il morso con il quale essa dovrebbe essere guidata) Giustiniano, se il trono imperiale (la sella) è vacante? Senza di esso (riferito a «freno») la vergogna sarebbe (fora) minore (meno). La sede imperiale stabilita da Dio è Roma; gli imperatori tedeschi, abbandonando l’Italia, sono venuti meno alla loro funzione. La situazione di divisione e illegalità in cui versa la penisola è ancor più vergognosa se si pensa che l’Impero dispone di un sistema di leggi – quello elaborato da Giustiniano – che resta del tutto inapplicato.

13 Ahi gente… a la predella: Ahimé, gente <di Chiesa> che dovresti dedicarti alle cose spirituali (esser devota) e <dovresti> lasciar sedere l’imperatore (Cesare, antonomasia) sul suo trono (sella), se ben comprendi ciò che Dio ti ha prescritto (ti nota, con riferimento all’evangelico «Redde quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo» [«Dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»]; Matteo, XXII, 21), guarda quanto questa bestia (fiera) è divenuta (fatta) recalcitrante (fella, dal francese fel, infido ) poiché non è governata (corretta) dagli speroni <dell’imperatore>, poiché tu (questa parte dell’apostrofe è rivolta alla gente di Chiesa) ponesti mano alla briglia (predella; è precisamente la parte della briglia che si attacca ai finimenti e consente di guidare il cavallo a mano). L’Italia-cavalla non è montata dall’imperatore-cavaliere, bensì trascinata per le briglie dal clero che va a piedi (cioè da chi non ha competenza per esercitare quel potere).

14 O Alberto tedesco… temenza n’aggia: O Alberto tedesco (Alberto d’Asburgo, re di Germania dal 1298 e imperatore dal 1303 al 1308) che abbandoni costei (l’Italia) che è divenuta (fatta) indomabile e selvaggia, mentre (e) dovresti guidarla (inforcar li suoi arcioni), cada dal cielo (da le stelle) una giusta punizione (giudicio) sulla tua dinastia (sovra ’l tuo sangue), e sia <una punizione> straordinaria (novo) ed esemplare (aperto), in modo che il tuo successore ne abbia timore (temenza). La maledizione sembra alludere, sotto forma di profezia post eventum, alla morte improvvisa del primogenito di Alberto, avvenuta nel 1307, e all’uccisione dello stesso Alberto avvenuta nel 1308. Alberto non scese mai in Italia per farsi incoronare imperatore; il successore di Alberto fu Arrigo VII di Lussemburgo, cui Dante riserva un seggio in Paradiso (cfr. nota ).

15 Ch’avete tu… sua diserto: Poiché (Ch’) tu e tuo padre (Rodolfo d’Asburgo), trattenuti (distretti) dalla cupidigia degli affari delle vostre terre (di costà, con riferimento sprezzante alla Germania), avete sopportato (sofferto) che il giardino dell’Impero (l’Italia) sia abbandonato (diserto).

16 Vieni a veder… con sospetti: Vieni a vedere i Montecchi e i Cappelletti (si tratta di due fazioni contrapposte della Lombardia), i Monaldi e i Filippeschi (due fazioni di Orvieto), o uomo che trascura il suo dovere (sanza cura): i primi (color, cioè Montecchi e Cappelletti) già rovinati (tristi), e i secondi (questi, ossia Monaldi e Filippeschi) preoccupati (con sospetti) <della prossima rovina>. Il vergognoso stato di abbandono dell’Italia, testimoniato dalla decadenza delle più importanti famiglie nobiliar, è sottolineato con incisività dall’anafora del sintagma «vieni a veder».

17 Vien, crudel, vieni… com’è oscura: Vieni, o crudele, vieni e vedi l’umiliazione (pressura) delle famiglie nobiliari (gentili) che dipendono da te (tuoi), e ripara i loro danni (magagne); e vedrai <la contea di> Santafiore come è decaduta (oscura)! Riferimento alle famiglie feudali cui l’Impero aveva demandato la cura dei propri interessi. La contea di Santafiore, governata dalla famiglia Aldobrandeschi, aveva perso nel 1300 buona parte dei suoi domini a favore del comune di Siena.

18 Vieni a veder… non m’accompagne: Vieni a vedere la tua Roma che piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte grida (chiama, dal lat. clamat): «Cesare mio, perché non ti unisci a me (m’accompagne)?». La personificazione di Roma abbandonata dall’imperatore richiama la visione di Gerusalemme nei primi versetti delle Lamentazioni di Geremia: «Quomodo sedet sola civitas […]. Facta est vidua […]. Plorans ploravit in nocte» [«Come sta solitaria la città […]. È divenuta vedova […] Ha pianto e pianto durante la notte»].

19 Vieni a veder… de la tua fama: Vieni a vedere quanto si ama (antifrasi che vale quanto è lacerata al suo interno) la popolazione; e se non ti smuove nessuna pietà di noi, vieni <almeno> a vergognarti della tua <cattiva> fama.

20 Esce di mano… la trastulla: Esce di mano <con la creazione> a colui che la contempla (vagheggia) ancor prima che esista (prima che sia; la perifrasi indica Dio, che conosce il futuro ab aeterno), simile a una fanciulla che ride e piange senza motivo in modo infantile (ridendo e piangendo pargoleggia), l’anima ignara (semplicetta) che non ha alcuna conoscenza (che sa nulla), tranne quella <istintiva> per cui, essendo stata creata (mossa) da un creatore buono (lieto fattore), essa tende naturalmente (volentier torna) a ciò che la allieta (la trastulla, cioè appunto al bene). L’anima nasce dunque amando il bene, ma in maniera puerile (come testimoniano i verbi «pargoleggia» e «trastulla») ed è quindi soggetta a ingannarsi facilmente circa la natura di esso.

21 Di picciol bene… suo amore: All’inizio (in pria) sente il sapore di un piccolo bene (cioè dei beni materiali; questi non sono di per sé cattivi, ma semplicemente illusori); seguendo questo (quivi) si inganna e corre dietro ad esso, se una guida o un freno (l’anima è implicitamente paragonata a un cavallo, con metafora simile a quella di Purgatorio, VI) non indirizza (torce) il suo amore <verso il vero bene>. La «guida» rappresenta il potere spirituale del papa (cfr. v. 100), mentre il «fren» si identifica con il potere temporale dell’imperatore e con la legge (cfr. v. 94).

22 Onde convenne… la torre: Per cui (Onde) fu necessario (convenne) porre la legge come freno; fu necessario avere un re che distinguesse (discernesse) almeno la parte più visibile (la torre) della città di Dio (vera cittade). Sia la metafora della città sia la concezione del potere politico come freno alle deviazioni della natura umana derivano da sant’Agostino. Quest’ultimo parla di civitas Dei per designare la comunità dei viventi che è prefigurazione della Gerusalemme celeste (ossia la comunità dei beati). La «torre» di questa «vera cittade» va identificata con la giustizia umana, che anticipa e prepara l’avvento della città di Dio. Il potere temporale è appunto conferito a chi abbia conoscenza di tale giustizia, ossia all’imperatore.

23 Le leggi son… l’unghie fesse: Le leggi ci sono, ma chi le fa applicare (pon mano ad esse)? Nessuno, poiché il papa (pastor) che guida <i cristiani> (procede, come un pastore va avanti al gregge) può meditare <la Scrittura> (rugumar, forma toscana che significa letteralmente ruminare), ma non ha la capacità di distinguere il bene dal male (non ha l’unghie fesse, lett. non ha lo zoccolo diviso in due). Dante richiama qui, interpretandola allegoricamente, la legge mosaica che vietava agli Ebrei di mangiare la carne di animali che non ruminano e non hanno lo zoccolo divisi in due (Levitico, XI, 3; Deuteronomio, XIV, 6). Secondo l’interpretazione di san Tommaso «fissio ungulae significat […] discretionem boni et mali; ruminatio autem significat meditationem Scripturarum et sanum intellectum earum» [«la divisione dell’unghia indica la capacità di discernere il bene dal male; il ruminare invece significa la meditazione delle Scritture e la retta comprensione di esse»] (Summa theologiae, II, 1, q. CII, 6). Secondo Dante il papa, che è dotato della capacità di meditare le Scritture, manca invece del discernimento pratico pergovernare il mondo. Pietro di Dante, figlio del poeta e primo commentatore della Commedia, ha osservato che questa mancanza di discernimento riguarda proprio la confusione tra potere temporale e spirituale: «praesentes pastores, licet sint sapientes, et sic ruminant, tamen non habent ungulas fissas in discernendo et dividendo temporalia a spiritualibus» [«Gli attuali pastori, sebbene siano sapienti – e infatti ruminano – tuttavia non hanno le unghie fesse nel distinguere e dividere le cose temporali dalle spirituali»]. Quest’interpretazione sembra confermata dalla terzina successiva.

24 per che la gente… più oltre non chiede: per cui la gente, che vede la sua guida <spirituale> mirare (fedire, metafora) proprio (pur) a quel bene <materiale> di cui essa è desiderosa (ghiotta), si accontenta (pasce) di esso, e non chiede nulla di più. Il cattivo esempio del papato temporalistico corrompe dunque la cristianità.

25 Ben puoi veder… sia corrotta: Puoi constatare (veder) facilmente che la causa che ha reso (fatto) il mondo malvagio (reo, complemento predicativo dell’oggetto) è la sua cattiva guida (condotta, riferito al governo dei pontefici), e non la natura che sia in voi uomini corrotta. L’ultimo verso si spiega ricordando che il discorso di Marco Lombardo tende a dimostrare il libero arbitrio dell’uomo e quindi la sua piena responsabilità morale nella scelta del bene o del male [DIV7].

26 Soleva Roma… di Deo: Roma, che preparò il mondo al bene (che ’l buon mondo feo) soleva avere due soli (metafora che significa due poteri), che mostravano (facean vedere) l’una e l’altra strada, <quella> del mondo e <quella> di Dio.

27 L’un l’altro ha spento… che vada: L’uno <dei due soli> (il papa) ha spento l’altro (l’imperatore); e la spada (simbolo del potere temporale) è congiunta (giunta) con il pastorale (simbolo del potere spirituale), ed è naturale (convien) che l’unione delle due autorità (l’un con l’altro insieme) <realizzata> in modo arbitrario (per viva forza) funzioni (vada) male.

28 però che… per lo seme: poiché (però che), essendo <i due poteri> congiunti (giunti), l’uno non è bilanciato dall’altro (l’un l’altro non teme); se non mi credi, pensa (pon mente) ai risultati <di questa confusione> (a la spiga), perché ogni pianta si riconosce dal suo frutto (ch’ogn’erba si conosce per lo seme).

29 Nel giallo… bianche stole: Beatrice condusse (trasse) me, che ero simile a colui (qual è colui) che tace <per la meraviglia> anche se vorrebbe parlare, nel mezzo dell’eterna corona dei beati (nel giallo della rosa sempiterna, metafora: come si dirà all’inizio del canto successivo, nell’Empireo i beati appaiono a Dante in forma «di candida rosa»; nei fiori il giallo corrisponde allo stame, ossia appunto alla parte centrale) che si sviluppa per gradini (digrada: i beati appaiono seduti su seggi disposti in diversi ordini) e si allarga progressivamente (dilata) ed emana (redole, latinismo) il profumo della lode al sole che fa eternamente primavera (che sempre verna, latinismo; la perifrasi designa Dio), e disse: «Guarda (Mira) quanto è grande la comunità (’l convento) dei beati (bianche stole)!». Quest’ultima espressione è una metonimia, perché in Apocalisse, VII, 9 si dice che i beati sono «amicti stolis albis» [vestiti di bianche stole»]; il passo dell’Evangelista è citato esplicitamente in Paradiso, XXV, 95).

30 Vedi nostra città… ci si disira: «Vedi quanto si estende (quant’ella gira; il pronome è pleonastico) la nostra città; vedi i seggi del Paradiso (nostri scanni) occupati (ripieni) in modo () che qui (ci) si attende (si disira) ormai (più) poca gente». Sono pochi, cioè, gli uomini viventi o nascituri di cui è prevista la salvezza; Dante riteneva prossima la fine del mondo, come risulta da Convivio, II, xiv, 13: «noi siamo già ne l’ultima etade del secolo, e attendemo veracemente la consummazione del celestiale movimento».

31 E ’n quel gran seggio… ch’ella sia disposta: «E in quel grande seggio, al quale tu rivolgi (tieni) lo sguardo a causa della corona che vi è posta sopra, prima che tu partecipi a questo festoso banchetto (a queste nozze ceni, cioè prima che tu muoia e giunga in Paradiso) siederà l’anima, che in terra (giù) sarà già stata (fia) rivestita di dignità imperiale (agosta, dal latino augusta) del grande (alto) Arrigo VII, che verrà a riformare (drizzare) l’Italia prima che essa sia pronta (disposta) <ad accogliere la sua opera>». Beatrice, nella consueta forma della profezia post eventum, predice il tentativo di Arrigo VII, compiuto nel 1310, di restaurare il potere imperiale scendendo in Italia. L’opera di Arrigo, formalmente appoggiata (ma in realtà segretamente avversata) da papa Clemente V, era destinata a fallire (Arrigo morì nel 1313), ma in Paradiso le intenzioni dell’imperatore sono premiate con un seggio contraddistinto dei simboli del potere regale.

32 La cieca cupidigia… caccia via la balia: «La sciocca (cieca) avarizia che vi inganna (ammalia) vi ha resi simili a un bambino che muore di fame e <tuttavia> caccia via la nutrice (balia)». La similitudine descrive il comportamento stolto dell’umanità, che rifiuta quel potere imperiale di cui ha vitale necessità.

33 E fia prefetto… per un cammino: «E sarà preposto (prefetto) alla sede pontificia (nel foro divino) in quel momento (allora, cioè quando Arrigo compirà la sua impresa) un tale (Clemente V) che, nei suoi riguardi (con lui) non si comporterà (andrà) allo stesso modo (per un cammino) palesemente (palese, aggettivo concordato con il pronome relativo «che», ma con significato avverbiale) e in segreto (coverto)». Riferimento all’ambiguità del papa, che ingannò Arrigo fingendo di avallare la sua impresa, ma in realtà ostacolandola.

34 Ma poco… intrar più giuso: «Ma <questo papa> sarà per poco tempo sopportato (sofferto) da Dio nella santa sede (santo officio); tant’è vero che egli (ch’el) sarà precipitato (detruso) là dove meritatamente (per suo merto) si trova Simon mago, e farà scendere più in basso <il papa> di Anagni (Alagna: riferimento a Bonifacio VIII, che in quella località era nato e che lì, nel suo palazzo, subì l’umiliazione nota come “schiaffo di Anagni”)». Nel girone dei simoniaci, l’ultimo papa punito per questo peccato sta infilato in un buco con la testa in giù e i piedi che fuoriescono. All’arrivo del suo successore, però, egli viene sostituito in quella posizione e scivola più in basso nella cavità sotterranea. Nel 1300 l’ultimo papa simoniaco morto era Niccolò III, che Dante ha incontrato all’Inferno. Già in quella cantica era stato previsto che, in futuro, sarebbero arrivati nello stesso girone anche Bonifacio VIII e Clemente V [DIV9a].

35 E quando il dente… la soccorse: E quando la ferocia (il dente, metafora) longobarda attaccò (morse) la Santa Chiesa, Carlo Magno, vincendo <contro i Longobardi>, la protesse (soccorse) sotto le ali dell’aquila (le sue ali).



IL TESTO
Nei brani che abbiamo letto si ripercorrono le linee fondamentali della storia dell’Impero e se ne denuncia la decadenza, attribuendola principalmente al crescente potere temporale della Chiesa. Riassumiamo le tappe più importanti di questa storia, seguendole in ordine cronologico (e a prescindere dall’ordine in cui i brani sono presentati nel poema).

Paradiso, VI: all’origine della decadenza
La decadenza dell’Impero – come già detto nel canto XIX dell’Inferno [DIV9b] – ha origine dalla donazione di Costantino. Si credeva nel Medioevo che quest’imperatore, per ringraziare papa Silvestro che l’aveva guarito dalla lebbra, gli avesse donato parte dei possedimenti territoriali dell’Impero, menomando così l’autorità di questa istituzione e ponendo le basi per il potere temporale della Chiesa.
Solo nel XV secolo l’umanista Lorenzo Valla avrebbe dimostrato la falsità del documento attribuito a Costantino. Dante parla ancora della donazione come di un fatto storicamente vero e, oltretutto, non mette in discussione le buone intenzioni di Costantino; tant’è vero che quest’imperatore figura in Paradiso tra gli spiriti giusti (canto XX). Tuttavia il poeta vede in quest’atto ingenuamente compiuto – che peraltro considera illegittimo e dunque nullo [G34] – la negazione del disegno divino che aveva fatto grande l’Impero romano. Lo si può comprendere facilmente già dalla vicenda dell’aquila con cui si apre il VI canto del Paradiso: era provvidenziale il viaggio da oriente a occidente compiuto da Enea, che avrebbe portato l’Impero a insediarsi a Roma; viceversa il percorso voluto da Costantino, che spostò la sede imperiale a Bisanzio, fu un’illecita inversione del «corso del ciel»: espressione che non va intesa solo in senso letterale (l’aquila imperiale si muove infatti, nel percorso Roma-Bisanzio, da occidente a oriente) ma anche in senso allegorico.
A biasimare quest’atto così gravido di conseguenze è il più grande legislatore di epoca romana, Giustiniano: l’unico personaggio del Paradiso le cui parole occupino per intero un canto. Dante coglie in pieno i meriti storici di quest’imperatore (ancor oggi il diritto civile si fonda sugli istituti che egli raccolse e armonizzò nel Corpus iuris civilis). Ma per il poeta l’impero romano è assai più che un glorioso capitolo di storia antica. Il potere universale rappresentato dall’aquila si trasmette infatti «di mano in mano» non solo nel mondo antico, ma fino agli imperatori medievali: Dante accoglie qui la dottrina della translatio imperii, che vedeva in Carlo Magno e nei suoi discendenti i legittimi eredi di Augusto e Giustiniano. Alla translatio imperii il poeta dedica in questo canto appena una terzina, che è però molto significativa. Egli non fa alcun accenno al fatto che Carlo Magno abbia ricevuto dal papa, nella notte di Natale dell’anno 800, la corona imperiale. Fa invece risalire la sua dignità imperiale all’anno 773, quando egli scese in Italia per difendere la Chiesa dai Longobardi:

E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse35 (Paradiso, VI, vv. 94-96).

L’imperatore fu dunque legittimo portatore dell’aquila (proprio a lei appartengono le «ali» del v. 95), a prescindere dalla consacrazione pontificia. Dante ribadisce così implicitamente le posizioni, già espresse nel De Monarchia, circa la provenienza diretta da Dio della dignità imperiale. Il che comporta l’infondatezza di ogni pretesa di subordinare l’imperatore al papa.

Purgatorio, VI: la situazione dell’Italia e le colpe dell’imperatore
Il canto VI del Paradiso, pur soffermandosi sulle lotte tra guelfi e ghibellini, non entra nel merito della crisi che l’istituto imperiale attraversò tra XIII e XIV secolo. Federico II di Svevia era stato l’ultimo tra i portatori dell’aquila a stabilire la propria sede in territorio italiano. Con l’estinzione della casata degli Hoenstaufen si aprì un periodo di lotte di fazione, che determinò una lunga vacanza della sede imperiale. La situazione parve normalizzarsi solo nel 1273, quando sette principi elettori conferirono la somma autorità a Rodolfo d’Asburgo. Quest’ultimo però rinunciò a scendere in Italia per farsi incoronare, meritandosi l’accusa, da parte di Dante, di aver agito solo in nome dei propri interessi sul suolo tedesco. La situazione non cambiò quando, dopo un periodo in cui il trono fu retto da Adolfo di Nassau (1291-1298), portatore dell’aquila diviene Alberto I (eletto re di Germania nel 1298, e insignito della dignità imperiale nel 1303).
Proprio Alberto diviene, nel canto politico del Purgatorio, uno dei principali obiettivi polemici di Dante. Non deve sorprendere l’importanza che assume il tema dell’Impero in un canto incentrato sulla situazione italiana. Dante, considerando Roma come sede naturale della massima istituzione politica, non può scinderne in alcun modo i destini da quelli dei legittimi successori di Augusto.
Ad Alberto il poeta si rivolge con un’apostrofe che dimostra bene la conoscenza delle vicende successive al 1300: Dante, nel rivolgere la sua maledizione contro il cattivo principe d’Asburgo, tiene ancora viva la speranza che il suo successore possa agire diversamente e ottenere un successo. Non si erano ancora consumati, al momento della stesura di questo canto, gli eventi degli anni 1310-1313, che avrebbero dimostrato l’illusorietà delle speranze che il poeta riponeva in Arrigo VII, il principe che avrebbe tentato, per l’ultima volta, la sacrosanta restaurazione del potere imperiale.

Purgatorio, XVI: le colpe della Chiesa e la teoria dei due soli
La crisi dell’Impero, nella visione dantesca, non può essere esaminata senza far riferimento alla degenerazione del papato. E infatti Dante, nel VI canto del Purgatorio, si rivolge anche alla Chiesa, dimentica del precetto evangelico che impone di dare a Cesare quel che è di Cesare, e la raffigura nell’atto di trascinare per le briglie, procedendo a piedi, una cavalla dalla sella vuota (v. 91-96). Ma è il canto XVI del Purgatorio quello in cui la questione del rapporto tra i poteri universali viene affrontata, per bocca di Marco Lombardo, con il massimo impegno teorico.
Il canto riprende da vicino l’argomentazione del De Monarchia. A conclusione di quel trattato, Dante aveva delineato con la massima chiarezza compiti e limiti dei due distinti poteri: quello temporale dell’Impero, che deve assicurare all’uomo la pace ela felicità di questa vita; e quello spirituale del Papato, che deve invece procurargli la vita eterna [G35]. Il concetto è già ribadito, nel canto XVII, quando Marco parla di «guida» e di «fren» (v. 93), ed è esplicitamente difeso, nei vv. 106-114, contro le dottrine della pubblicistica filopapale, che pretendeva invece di subordinare l’imperatore al pontefice. Queste tesi furono riassunte nel 1302 nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII; ma erano già diffuse prima e si esprimevano ad esempio nella teoria del sole e della luna, secondo cui il potere ecclesiastico andava assimilato all’astro di maggior splendore, con conseguente perdita di prestigio della dignità imperiale.
A questa insidiosa metafora Dante ne contrappone una assai ardita: egli sostiene che Impero e Papato sono due soli, dei quali uno rischiara la strada del mondo e l’altro quella di Dio. Il Papato ha però spento l’Impero, realizzando una confusione tra spada e pastorale che impedisce tra l’altro il bilanciamento reciproco tra i due istituti («l’un l’altro non teme»). Lo scandaloso esempio della curia romana – che, non avendo «l’unghie fesse», manca della capacità pratica di discernimento tra il bene e il male – corrompe poi l’intera cristianità, che si volge a quegli stessi beni materiali di cui per primo il papa si dimostra ghiotto.

Paradiso, XXX: Arrigo VII dopo il fallimento
È in questo quadro che Dante affida le residue possibilità di salvezza ad Arrigo VII (uno dei tanti personaggi, per inciso, per i quali è stata proposta l’identificazione con il Veltro). Ma se ancora nel Purgatorio la sua impresa appare possibile, nel Paradiso (canto XXX, certamente composto dopo la morte di Arrigo) se ne deve ormai constatare l’esito negativo. Tuttavia il generoso imperatore merita un seggio tra i beati, contraddistinto dalle insegne dell’Impero. Beatrice, nel mostrare a Dante questo seggio, si fa essa stessa portavoce delle convinzioni etico-politiche del poeta. La santa donna ribadisce infatti la stoltezza dell’umanità, che rifiutando l’Impero si comporta come un lattante affamato che scacci sua la nutrice; e ribadisce la condanna contro i pontefici romani, Clemente V e Bonifacio VIII.

IL PROBLEMA
Dante progressista o conservatore? Un falso problema
Si potrebbe giudicare anacronistica la battaglia di Dante in favore dell’Impero e si potrebbe accusare il poeta – alla luce degli sviluppi successivi della storia europea in campo politico ed economico – di non aver compreso la direzione che avrebbe preso la realtà del suo tempo. L’Europa degli Stati nazionali e l’espansione della borghesia mercantile avrebbero dimostrato infatti l’inattualità del suo progetto di restaurazione della monarchia universale. Ciò non autorizza però ad applicare a Dante schematiche definizioni desunte dai nostri tempi e a bollarlo, ad esempio, come un reazionario incapace di comprendere il proprio tempo. Possono esserci nella sua opera spunti conservatori e perfino “reazionari” (come appunto la fedeltà all’Impero, o più ancora la nostalgia per una Firenze patriarcale e non toccata dall’immigrazione, che si esprime nel XV canto del Paradiso); così come possono essercene altri decisamente “progressivi” (la rigorosa divisione tra Stato e Chiesa, o il concetto – a suo modo, quasi un’anticipazione di Montesquieu – per cui un sistema politico si garantisce non solo con l’indipendenza dei poteri, ma con il loro reciproco bilanciamento). Ma etichettare Dante con le categorie politiche dell’oggi non ci aiuterebbe a capire meglio la sua opera, né a cogliere ciò che del suo messaggio può considerarsi attuale. Si tratterebbe solo di esercizio sterile e, questo sì, veramente anacronistico.

Dante utopista
Più corretto ci appare leggere Dante come un grande utopista. «Per Dante – osserva giustamente Aurelio Roncaglia – la politica non è arte del possibile, ma attuazione d’un assoluto; ansia d’assoluto è la sua ansia di rinnovamento». Quest’assoluto diventa per lui il metro di giudizio – giudizio in primo luogo etico e religioso – sul reale; e se a volte il suo pensiero politico può prendere la forma di una nostalgia per il passato, va riconosciuto che il ritorno al tempo andato «non è proposto in funzione di un interesse di classe o di gruppo», ma si configura come «la restaurazione di valori che Dante ritiene universali ed eterni» (Mineo)1. Questi valori, inoltre, contengono «una carica umana, una perennità di lezione e suggestione, che i lettori di epoche segnate dall’instabilità e dall’insoddisfazione e dall’insicurezza hanno variamente recepita». E si tratta di valori «quasi tutti oggi riattualizzati da un’esperienza dolorosa di assurdi sterminii e di smisurati egoismi: la pacifica e amorosa convivenza umana, la felicità di un’esistenza libera dall’ansia del successo ed equilibrata dalla ragione, la gioia del conoscere, la nobiltà di una vita sulla terra libera per le scelte decisive, la sicurezza di una giustizia infallibile, giusta anche nella misericordia».

Utopia e denuncia
Non intendiamo, con questo, affermare che la Commedia vada letta privandola della sua concreta dimensione storica. Al contrario, tale dimensione andrà riscoperta a un livello più profondo, e senza mai sovrapporle le categorie del nostro tempo. E in verità, più che essere celebrazione nostalgica di valori del passato, la Commedia è a nostro avviso rappresentazione impietosa e possente di un mondo reale e – per il poeta – assolutamente presente; un mondo da cui i valori sono stati esiliati, come Dante può scorgere meglio di altri dalla sua prospettiva di esule. Può essere legittimo, senza dubbio, affermare che Dante non coglie gli aspetti progressivi del nascente universo borghese, e rimane legato a un cristianesimo di ispirazione francescana per cui la povertà è appunto un valore e non un problema sociale [DIV10]; è però altrettanto vero che la sua critica del mondo in cui ha vissuto – critica della nascente economia borghese, già capace di trasformare in merce ogni cosa, Gesù Cristo compreso; di una religione ridotta a rituale di comodo o a strumento di potere; di una politica mondiale che ha smarrito la sua capacità di guardare ai problemi con un’ottica universale che assicuri la pace; di una politica italiana in cui le leggi esistono ma non si applicano, in cui i particolarismi locali hanno fatto della penisola un «bordello» – tocca sempre concretissimi problemi storici. Problemi che erano assolutamente reali al suo tempo, e che in buona parte sembrano esserlo ancor oggi.

Un’utopia concreta
La battaglia etico-politica di Dante, comunque si vogliano giudicare i suoi contenuti, ha infine il pregio di non far mai del proprio utopismo un alibi di fronte ai mali del mondo. La certezza di un aldilà di giustizia non sottrae infatti il poeta, neanche per un istante, all’obbligo morale di battersi perché la giustizia trionfi anche nella vita terrena. Se così non fosse, l’elemento polemico e politico, nella Commedia, non resterebbe tanto vivo anche alle più vertiginose altezze del Paradiso. Perfino san Pietro, quando deve bollare la degenerazione dei papi che gli sono succeduti, si concede, in nome della sua santa indignazione, inaudite escursioni verso un linguaggio basso e realistico [DIV9a]. E Beatrice, l’angelica donna amata nella Vita nuova e che in Paradiso siede accanto alla contemplativa Rachele [DIV9a], sfrutterà le ultime le parole di questo canto – che sono anche, va sottolineato, le ultime in assoluto da lei pronunciate in Paradiso – per mandare «letteralmente al diavolo» (Sermonti) due papi simoniaci. Alle porte di una straordinaria esperienza mistica [DIV14b], Dante avverte dunque, con immutata forza, l’esigenza di combattere la sua battaglia di uomo vivo; sente ancora il dovere di adoperare tutte le sue armi – che sono quelle della parola e dell’intelligenza – per assicurare all’umanità una felicità terrena fondata su valori universali. Qui il poeta ci rivela la forza del suo «umanesimo cristiano», ossia l’«ottimismo della sua visione dell’uomo e delle sue capacità naturali, non distrutte dal peccato originale né vanificate dalla grazia»2. Ed è una forza che continua a parlare, attraverso il corso dei secoli, perfino a uomini lontani dall’orizzonte di certezze del Medioevo.


1 Traiamo le citazioni di questo paragrafo da Nicolò Mineo, Dante, in Letteratura italiana Laterza, diretta da Carlo Muscetta, Bari, Laterza, 1980, p. 194.

2 Ivi, p. 192.



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