DIV2a
Dante Alighieri
Il sincretismo medievale – Roma, le Muse, Apollo
Divina Commedia Inferno, II, 1-36; Purgatorio, I, 1-12; Paradiso, 1-21

Ciascuna delle cantiche della Divina Commedia si apre con la presentazione della materia (protasi) e con l’invocazione a una divinità pagana (le Muse, Apollo), cui il poeta chiede l’ispirazione. Nell’Inferno protasi e invocazione si presentano all’inizio del secondo canto, in quanto il primo fa da proemio all’intera opera (infatti l’Inferno è composto di 34 canti, a differenza delle altre due cantiche che ne hanno 33). L’invocazione alla divinità costituisce un’imitazione dei modelli classici (nei testi qui riportati i modelli sono soprattutto Virgilio e Ovidio). Ma Dante rinnova profondamente il significato di tale invocazione perché, nel suo poema – e ciò appare sempre più evidente via via che dall’Inferno si sale al Purgatorio e al Paradiso –, dietro le divinità pagane credute vere dai poeti antichi si cela l’unica divinità creduta vera da Dante: il Dio dei cristiani.
Riportiamo, di seguito, la protasi e l’invocazione di ciascuna delle tre cantiche.

[Inferno, canto II, vv. 1-36]
Per quanto riguarda il canto II dell’Inferno, analizzeremo un brano un po’ più ampio: dopo protasi e invocazione, infatti, Dante espone le proprie convinzioni circa il significato provvidenziale dell’Impero romano, presentando il suo trionfo politico come una preparazione del mondo all’avvento del cristianesimo. Il brano qui antologizzato si inserisce in una serrata discussione tra Dante e Virgilio, a proposito della necessità di compiere il viaggio nell’oltretomba. Dante manifesta i suoi dubbi, dicendosi indegno di questa missione. Tali dubbi saranno in seguito risolti da Virgilio, il quale lo informerà che il suo viaggio è voluto dalla Vergine Maria [DIV8].

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno 3

m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra1. 6

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate2. 9

Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi. 12

Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente3. 15

Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale 18

non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto: 21

la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero4. 24

Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto5. 27

Andovvi poi lo Vas d’elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione6. 30

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede7. 33

Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono»8. 36

[Purgatorio, canto I, vv. 1-12]
Protasi e invocazione seguono, nel primo canto del Purgatorio, l’ordine tradizionale. Dapprima viene indicata la materia della cantica; segue l’invocazione alle Muse (che sono qui indicate come «sante»), e in particolare a Calliope, di cui Dante – seguendo Ovidio – ricorda la sfida vittoriosa nel canto contro le Pieridi.

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele; 3

e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno9. 6

Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Caliopè alquanto surga, 9

seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono10. 12

[Paradiso, canto I, vv. 1-21]
La protasi della terza cantica mette in primo piano, con rigorosa terminologia filosofica, l’estrema difficoltà della materia, che per la sua natura si sottrae alla memoria umana. Segue l’invocazione ad Apollo, divinità pagana chiamata qui ad affiancare le Muse. Anche in questo caso è evocato un mito ovidiano, e anche in questo caso si tratta di una sfida nel canto: quella tra il satiro Marsia e lo stesso Apollo.

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove11. 3

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende12; 6

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire13. 9

Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto14. 12

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro15. 15

Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu16; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso17. 18

Entra nel petto mio, e spira tue18
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue19. 21






1 Lo giorno… che non erra: Il giorno tramontava (se n’andava) e l’oscurità della sera (l’aere bruno; è una metonimia, perché viene usato il concreto al posto dell’astratto) liberava (toglieva) dalle loro fatiche gli esseri animati (animai, latinismo) che vivono sulla terra; mentre invece (e, con valore avversativo) io solo, unico <tra questi esseri> (io sol uno), mi apprestavo (apparecchiava) ad affrontare la sofferenza (a sostener la guerra) sia () del viaggio (cammino), sia dell’angoscia <suscitata dai tormenti dei dannati> (pietate; il termine ha, in Dante, significato diverso dall’attuale “pietà”), che (pronome relativo con funzione di complemento oggetto, riferito a «guerra») la memoria (mente; è il soggetto della relativa), che ricorda con esattezza (che non erra), riferirà (ritrarrà). Il secondo canto si apre con l’indicazione dell’ora in cui comincia il viaggio: è trascorsa l’intera giornata che era iniziata all’alba nella «selva oscura», e il giorno volge ormai al termine. Il tramonto del sole richiama anche, allegoricamente, la condizione dell’uomo ottenebrato dal peccato. I versi 4-5 contengono, in forma molto sintetica, la protasi, ossia l’indicazione della materia della cantica: «la guerra / sì del cammino e sì de la pietate», ossia la sofferenza fisica affrontata da Dante nel suo viaggio, e la sofferenza morale dovuta alla visione dei patimenti dei dannati.

2 O muse… nobilitate: O Muse, o <mio> elevato ingegno, ora aiutatemi; o memoria (mente) che registrasti (scrivesti, metafora) ciò che io vidi, qui si misurerà (si parrà, lett. si manifesterà) il tuo valore (nobilitate). Le Muse, divinità pagane protettrici delle lettere, delle arti e delle scienze, sono invocate da Dante in ossequio alla tradizione classica. Il riferimento all’«alto ingegno» dimostra la sua consapevolezza dell’importanza della propria opera di poeta (cfr. Inferno, I, v. 87 [DIV1a]), ma tale riferimento va letto alla luce del v. 9: Dante, più che vantare la propria abilità, vuole qui lanciare una sfida a se stesso.

3 Io cominciai… sensibilmente: Io cominciai <rivolto a Virgilio>: «O poeta che mi guidi, guarda se la mia capacità (virtù) è adeguata (possente; il pronome «ell’», dopo la prolessi del sostantivo «virtù», è pleonastico), prima che tu mi destini (fidi) al difficile viaggio (alto passo). Tu dici <nell’Eneide> che il padre (parente, latinismo) di Silvio (cioè Enea: Silvio è il figlio che l’eroe troiano ebbe da Lavinia), quand’era ancora vivo (corruttibile, nel senso di mortale) andò nel mondo (secolo) immortale, e ciò avvenne (fu) con il corpo (sensibilmente)». Il viaggio di Enea nel regno dei morti è narrato nel VI libro dell’Eneide. Il racconto di Virgilio stabilisce un primo precedente rispetto al viaggio che Dante sta per intraprendere. Ma subito dopo il poeta fiorentino dichiara la propria inadeguatezza rispetto a tale modello.

4 Però, se l’avversario… maggior Piero: «Perciò (Però, dal latino per hoc; questa congiunzione non ha, nella lingua di Dante, il valore avversativo che noi le attribuiamo), se il nemico di ogni male (Dio) fu verso di lui (i, dal dativo latino ei) <così> generoso, <questo privilegio> non deve sembrare una cosa assurda (non pare indegno) a un uomo assennato (omo d’intelletto), se si considerano (pensando) le straordinarie conseguenze (l’alto effetto) che dovevano procedere (uscir) da (di) lui (da Enea, che sarebbe divenuto capostipite di Roma), e <se si considera> chi egli fosse (’l chi) e che qualità avesse (’l quale); poiché egli (e’) fu scelto (eletto) nel Paradiso (nell’empireo ciel, ossia nel cielo immateriale in cui ha sede Dio) come fondatore (padre) della santa (alma; è un latinismo che significa letteralmente datrice di vita) Roma e del suo impero; la quale <Roma> e il quale <impero>, se si vuole dire la verità (a voler dir lo vero: Dante può scorgere il vero significato dell’Impero romano meglio di quanto avesse fatto Virgilio, che non aveva conosciuto Cristo), furono costituiti (fu stabilita: il verbo è al singolare anche se riferito a una pluralità di soggetti) per <ospitare> il luogo santo (la sede papale) dove (u’, dal lat. ubi) ha sede (siede) il successore del grande san Pietro (del maggior Piero, perifrasi per indicare il papa)». Il periodo è assai complesso e la parafrasi che abbiamo proposto non è l’unica possibile (per esempio il gerundio «pensando», che noi abbiamo fatto dipendere da «omo d’intelletto», potrebbe invece essere riferito a «l’avversario d’ogne male»). Le tre terzine sintetizzano la concezione provvidenzialistica della storia romana che era propria del pensiero medievale, secondo cui l’Impero romano fu voluto da Dio per consentire la pacificazione universale e la più ampia diffusione del Cristianesimo.

5 Per quest’andata… del papale ammanto: «Grazie a questo viaggio (andata) <nell’oltretomba> per il quale tu lo lodi, <Enea> ascoltò profezie (intese cose) che furono la causa (cagione) della sua vittoria e <in seguito> dell’autorità papale (papale ammanto: il sostantivo indica propriamente il paramento del pontefice e, per metonimia, la sua autorità)». Il viaggio nell’oltretomba, e le profezie lì ascoltate, convinsero infatti Enea a combattere in Italia ed a porre le basi per la futura fondazione di Roma.

6 Andovvi… salvazione: «Andò lì (nell’oltretomba) poi san Paolo (l’espressione Vas d’elezione, desunta da Atti degli Apostoli, IX, 15, significa letteralmente recipiente della scelta <divina>), per riportare da lì (recarne) stimolo (conforto) <a predicare> quella fede che è principio alla via della salvezza». Nella seconda Lettera ai Corinzi (XII, 2-4), san Paolo racconta di essere stato rapito al terzo cielo. La tradizione medievale riteneva che il santo avesse visitato anche l’Inferno. Anche rispetto a questo precedente, ovviamente, Dante chiarirà subito la propria inadeguatezza.

7 Ma io… ’l crede: «Ma io perché <dovrei> venire lì? O chi lo (’l) concede? Io non sono Enea, io non sono san Paolo. Né io né qualcun altro può credermi degno di (a) ciò».

8 Per che… non ragiono: «Per cui, se io mi lascio persuadere (m’abbandono) riguardo al (del; ricalca il de latino, con valore di complemento di limitazione) venire, temo che il mio viaggio (la venuta) sia (non sia: il verbo è preceduto dalla negazione perché la costruzione è ricalcata su quella latina dei verba timendi) temerario (folle). Tu sei saggio (savio), puoi capire <il mio discorso> meglio (me’) di quanto io non lo sappia esprimere (ch’io non ragiono)».

9 Per correr… degno: La piccola nave (navicella: la metafora della navigazione, per indicare l’impresa poetica o in genere intellettuale, era assai diffusa) del mio ingegno, che lascia dietro di sé un mare così crudele (l’Inferno) salpa (alza le vele) per percorrere acque più tranquille (miglior); e canterò di quel secondo regno <dell’oltretomba> (il Purgatorio), nel quale lo spirito umano si purifica (purga) e diventa degno di salire al cielo. Alle prime due terzine della cantica corrisponde la protasi. Significativo, all’inizio di una cantica ambientata in una montagna da scalare per liberarsi dal peccato, il ricorrere di verbi di movimento («correr», «lascia»), spesso connotato in senso ascensionale («alza», «salir»; nella terzina successiva si incontrano ancora «resurga» e «surga»).

10 Ma qui… perdono: Ma a questo punto (qui) la poesia (poesì, forma usata spesso nell’italiano medievale) che ha finora parlato dei morti (morta) risorga, o sante Muse, poiché io mi sono consacrato a voi (vostro sono); e a questo punto si alzi (surga) un po’ (alquanto) Calliope (musa della poesia epica), accompagnando (seguitando) il mio canto con quella musica (suono) a causa della quale le sciagurate (misere) Piche patirono (sentiro, passato remoto) un tale colpo <al loro orgoglio> che non ebbero più speranza (disperar, passato remoto) di scampo (perdono). Le due terzine contengono l’invocazione, arricchita dal riferimento al racconto di Ovidio secondo cui le Pieridi (ossia le figlie del re di Tessaglia Pierio) avevano sfidato nel canto le Muse. Vinte da Calliope, la maggiore delle Muse, le Pieridi imprecarono e furono trasformate in gazze (questo il significato di Piche, dal latino picae).

11 La gloria… altrove: Lo splendore (gloria) di colui che muove tutto <il creato> (perifrasi per indicare Dio) si diffonde (penetra) e si manifesta (risplende) attraverso (per) l’universo, in misura che varia nelle diverse parti di esso (in una parte più e meno altrove). L’impronta di Dio, motore immobile dell’universo (secondo la dottrina aristotelica), è presente ovunque, ma non tutti gli esseri ne partecipano allo stesso modo: la natura divina, infatti, risplende soprattutto nelle creature superiori (angeli e uomini, dotati di anima immortale), mentre si manifesta in misura minore negli animali, nelle piante, nei minerali (cfr. De vulgari eloquentia, I, 16, 5 [G30]). Nell’Epistola a Cangrande Dante spiega il termine «gloria» con «divinum lumen» o «divinus radius»: vi è dunque – come suggerisce anche il verbo «risplende» un’identificazione tra «gloria» e «luce».

12 Nel ciel… discende: Proprio io andai (fu’ io, con messa in rilievo del pronome di prima persona) nel cielo <Empireo>, che riceve (prende) in misura maggiore il suo splendore (più de la sua luce; il sostantivo, in questo contesto, è sinonimo di «gloria»), e vidi cose che chi discende da la sù non sa ne può ripetere (ridire). Come lo stesso Dante chiarisce nell’Epistola a Cangrande, il poeta non «sa» raccontare la sua visione perché l’ha dimenticata, e non «può» narrarla in quanto la parola umana è inadeguata a un tale soggetto.

13 perché, appressando… non può ire: <questo accade> perché il nostro intelletto, avvicinandosi all’oggetto del suo desiderio (al suo desire, ossia a Dio, la cui visione costituisce il fine supremo cui è destinato l’intelletto umano), deve utilizzare così a fondo le sue capacità di conoscenza (si profonda tanto) che la memoria non può andare (ire) dietro <ad esso>. Dio è conoscibile solo da un’esperienza straordinaria dell’intelletto (una facoltà dell’uomo che è capace di andare oltre gli oggetti sensibili), che deve a tal fine utilizzare fino in fondo le proprie risorse. Viceversa la memoria (che Dante designerà al v. 11 con il termine «mente») può ricordare solo oggetti percepiti con i sensi. Di conseguenza, l’esperienza puramente intellettuale della visione di Dio non si presta per sua natura ad essere ricordata dalla memoria umana. I mistici designano lo stato di estasi che consente la contemplazione di Dio come excessus mentis: quest’esperienza è infatti resa possibile dall’“uscita” (dal verbo latino excedere) dai limiti e dai vincoli in cui ordinariamente opera la mente umana.

14 Veramente… del mio canto: Tuttavia (Veramente, dal latino verumtamen) quel tanto (quant’) del Paradiso (regno santo) di cui io ho potuto conservare un ricordo (far tesoro) nella mia memoria (mente) sarà ora argomento (materia) della mia poesia (canto). Le prime quattro terzine costituiscono la protasi del Paradiso; l’enunciazione della materia, in questi versi, è strettamente intrecciata con la denuncia dell’impossibilità di ricordarla e riferirla in modo adeguato.

15 O buono Appollo… alloro: O eccellente (buono) Apollo, per (a) la <mia> ultima fatica poetica (lavoro), fai di me un recipiente (vaso) della tua virtù (valor) tale (sì fatto), quale tu lo richiedi (dimandi) per concedere il desiderato (amato) alloro. Comincia qui l’invocazione. Apollo, identificato dagli antichi con il Sole, è il dio della poesia; l’alloro è la pianta con cui si incoronavano i poeti, ed è anche la pianta in cui fu trasformata Dafne, ninfa amata dallo stesso Apollo. Il participio «amato» può dunque riferirsi tanto all’amore del poeta per l’alloro, quanto all’amore di Apollo per Dafne.

16 Infino a qui… mi fu: In ciò che ho finora scritto (Infino a qui) fu per me sufficiente (assai, dal latino ad satis, con lo stesso significato del francese assez) la prima cima (giogo) del Parnaso. Il monte Parnaso aveva due vertici; Dante identifica il primo di essi con la sede delle Muse. Queste ultime rappresentano un’ispirazione poetica che non travalica i limiti della conoscenza umana; pertanto il loro soccorso è stato sufficiente alla trattazione dell’Inferno e del Purgatorio (come è stata sufficiente la guida di Virgilio, allegoricamente identificabile con la ragione umana). In realtà, collocando le Muse sul primo «giogo di Parnaso», Dante commette un errore: tale vetta, che si chiama Nisa, non è abitata dalle Muse. Queste vivono invece sull’Elicona, che è un monte distinto dal Parnaso.

17 ma or… rimaso: ma ora mi è necessario (m’è uopo, dal latino opus est) entrare nel campo della gara (aringo, vocabolo di origine germanica che designa sia il luogo di riunione dei cittadini, sia il campo in cui venivano eseguiti gare e tornei) che mi rimane <da affrontare> con l’aiuto di entrambe (amendue) <le cime del Parnaso>. Per la sfida poetica del Paradiso Dante necessita del soccorso di Apollo, che abita la seconda cima del Parnaso (il Cirra). All’ispirazione delle Muse, e alla sapienza umana da esse rappresentata, deve ora affiancarsi una diretta ispirazione divina. Del resto il viaggio in Paradiso non si svolge più sotto la guida di Virgilio, ma sotto quella di Beatrice, che allegoricamente rappresenta la teologia.

18 Entra… tue: <O Apollo>, entra nel mio petto, e canta (spira) <direttamente> tu (tue, con epitesi). In questo contesto, Apollo rappresenta lo stesso Dio. Dante, chiedendo alla divinità di entrare in lui e di parlare per suo tramite, accosta l’ispirazione poetica a quella dei profeti.

19 sì come… membra sue: con la stessa virtù di (sì come) quando strappasti (traesti) Marsia dall’involucro (vagina, latinismo) della sua pelle (de le membra sue). Secondo il racconto di Ovidio, il satiro Marsia aveva sfidato Apollo nel canto. Sconfitto dalla divinità, fu legato a un albero e scorticato. Il verbo «traesti» richiama da vicino le parole pronunciate da Marsia nel testo ovidiano («quid me mihi detrahis?» [«perché mi strappi a me stesso?»]; Metamorfosi, VI, 385).



IL TESTO
Premessa: il concetto di sincretismo
La parola sincretismo viene da un verbo greco, synkretízein, che si potrebbe rendere in italiano come allearsi alla maniera dei Cretesi. Questi ultimi erano un popolo diviso in diversi gruppi, spesso in contrasto tra loro, ma capaci – quando esigenze militari lo richiedevano – di appianare tutte le loro contraddizioni per confederarsi tra di loro.

Il termine sincretismo indica propriamente la fusione di filosofie, culture o religioni diverse. Si può parlare di sincretismo per designare una delle caratteristiche essenziali della cultura medievale, capace di utilizzare numerosissimi spunti culturali e filosofici del mondo pagano fondendoli e armonizzandoli con la dottrina cristiana.
Il sincretismo non è presente fin da principio nella cultura medievale. Nell’alto Medioevo, anzi, il problema del rapporto tra cultura classica e cristianesimo aveva occupato la riflessione dei filosofi con esiti spesso discordanti. Esemplare, tra IV e V secolo, il contrasto tra la posizione di san Girolamo e quella di S. Agostino. Il primo definiva «cibo dei diavoli» tutte le opere della cultura classica («i carmi dei poeti, la sapienza mondana e la pompa dei discorsi retorici») in quanto, benché capaci di dilettare «con la loro dolcezza» e di catturare l’orecchio «con versi dolcemente modulati», esse «non saziano con la verità, non ristorano con la giustizia». Chi si dedica agli studi classici, secondo Girolamo, «resta affamato di verità e povero di virtù» [A6]1. Assai diversa – e, in prospettiva, vincente – la posizione di Agostino, che al rifiuto dei classici sostituisce una accurata rilettura di essi, che ne sappia valorizzare quei contenuti che risultano conciliabili con il cristianesimo. Agostino ritiene che nelle dottrine pagane non si trovino solo «false e superstiziose finzioni», ma anche «le arti liberali, discipline più atte alla verità e alcuni precetti utilissimi di morale; presso di loro si trovano anche alcune verità sul culto dell’unico Dio». Pertanto, è necessario comportarsi con i classici come avevano fatto gli Ebrei quando, liberandosi dalla schiavitù dell’Egitto, avevano rubato ai loro oppressori «vasi, ornamenti d’oro e d’argento e vesti» da portare in Israele «per farne un uso migliore». Allo stesso modo, le verità contenute nei testi antichi non andavano respinte in blocco, bensì rivendicate alla dottrina cristiana, e sottratte ai pagani «che le possiedono ingiustamente» [A7]. Il sincretismo promosso da Agostino avrebbe trionfato nel medioevo, conducendo presto alla reinterpretazione allegorica dei poemi antichi compiuta da Fulgenzio [A8] e aprendo la strada alla particolare forma di classicismo che caratterizza la Commedia dantesca.

Il principio di imitazione
Caratteristica di ogni forma di classicismo – e quello medievale non fa eccezione – è l’ammirazione per la perfezione formale raggiunta dagli antichi, ammirazione che si manifesta attraverso la loro assunzione a modelli e la loro imitazione. Dante stesso, nei brani che abbiamo letto, si rifà direttamente ai poeti latini. L’inizio del secondo canto dell’Inferno ricalca da vicino l’Eneide (III, 147): «Nox erat et terris animalia somnus habebat» [«Era notte, e in terra il sonno si impossessava degli esseri viventi»]. All’inizio di Purgatorio e Paradiso sono richiamati due miti (la sfida tra le Muse e le Piche, la sfida tra Apollo e Marsia) che trovano il loro modello nelle Metamorfosi di Ovidio, poema assai conosciuto nel Medioevo e contenente un inesauribile repertorio di favole antiche.

Un’interpretazione figurale dell’antichità pagana
L’imitazione, però, comporta in Dante una profonda rilettura del modello. Non si tratta solo di riprendere le favole degli antichi, ma di attribuire ad esse un significato profondo che può essere chiaro solo agli occhi dei cristiani. Solo così può spiegarsi il fatto che Dante, sulla scia dei poeti classici, torni a invocare le Muse ed Apollo, ossia divinità pagane. Queste gli appaiono infatti come la prefigurazione della divinità cristiana. I poeti antichi, che le invocavano, ricevevano spesso – secondo i medievali – l’ispirazione dal vero Dio; solo in virtù di questa ispirazione, del resto, può spiegarsi come essi abbiano potuto perfino profetizzare (come si pensava avesse fatto Virgilio [DIV2b]) la prossima venuta di Cristo.
Perciò Dante, invocando le Muse ed Apollo, non si limita a riprendere un modulo tradizionale. Egli sa che, dietro queste false divinità, si cela da sempre il vero Dio dei cristiani, capace di elargire la sua ispirazione profetica perfino a chi non lo conosceva, e dunque tanto più disposto ad elargirla a un poeta cristiano consapevole come Dante. Nell’invocazione dell’Inferno la natura divina di questa ispirazione ancora non compare. Dante invoca solo le Muse e il suo proprio ingegno; ma, d’altra parte, la materia che deve affrontare in questa cantica può essere ancora illustrata sulla base della sola sapienza umana (non a caso, per tutto l’Inferno, non c’è altra guida che Virgilio). La reinterpretazione religiosa delle Muse è invece esplicita nel Purgatorio, in cui le Muse divengono «sante» (e, al termine di questa cantica, a Virgilio subentrerà Beatrice, che farà poi da guida nel Paradiso). Ma nel Purgatorio, e più ancora nel Paradiso, la rilettura figurale del mondo classico è assai più sofisticata. È necessario infatti analizzare con attenzione i miti evocati da Dante, per comprendere come il poeta cristiano – applicando un criterio che ha i suoi precedenti in Fulgenzio [A8] – sia riuscito a trarre un significato del tutto nuovo da queste favole antiche.

Le Piche e Calliope: orgoglio punito, primavera di resurrezione
Le terzine con cui si apre il Purgatorio fanno esplicito riferimento alla punizione di alcune creature umane (le Pieridi) che avevano osato sfidare nel canto la divinità (le Muse) e furono perciò trasformate in gazze (Piche). Per comprendere più a fondo l’episodio bisogna risalire al testo di Ovidio (Metamorfosi, libro V). Nella temeraria gara di canto, infatti, la prima delle Pieridi inneggia alla lotta sacrilega dei Giganti contro gli dei dell’Olimpo; questo particolare si accorda perfettamente con significato che esplicitamente Dante attribuisce all’episodio: un richiamo all’umiltà, affinché l’uomo – e specialmente un uomo come lui, alle prese con un’impresa straordinaria – non si lasci trascinare da un folle orgoglio dimenticando la doverosa sottomissione alla divinità.
Il canto di Calliope, che segna la sconfitta delle Muse, ha invece per oggetto il mito di Proserpina: la fanciulla, figlia di Cerere, è rapita da Dite, re dell’inferno, ma ottiene di poter trascorrere metà dell’anno sulla terra, presso la madre. Quello di Proserpina è dunque un mito di resurrezione e di liberazione dal regno dei morti, che ben si accorda con la situazione di Dante nel passaggio dall’Inferno al Purgatorio. Inoltre, il ritorno sulla terra di Proserpina avviene in primavera, nella stessa stagione in cui si svolge l’azione del Purgatorio (che inizia precisamente nella mattina di Pasqua). Ecco che il mito classico assume, nella prospettiva cristiana, significati impensabili per Ovidio: il mito primaverile di risurrezione diviene in Dante – che vi allude pur senza esplicitamente citarlo – un mito pasquale.

Il satiro Marsia e l’excessus mentis
Discorso analogo potrebbe farsi per l’episodio del satiro Marsia, evocato all’inizio del Paradiso. Anche qui, a prima vista, ci troviamo di fronte solo a un esempio, il secondo, di orgoglio punito. Il satiro ha infatti sfidato nel canto Apollo e, per castigo della sua superbia, viene scorticato dal Dio. Dante, viceversa, non vuole commettere un simile peccato e quindi invoca la protezione di Apollo che – essendo stato nell’antichità identificato con il Sole – può comparire nel suo poema come figura di Cristo.
Ma forse, nell’episodio di Marsia, può leggersi un secondo significato. Il satiro, in Ovidio, viene estratto dall’involucro («vagina») delle sue membra. Le parole che Marsia pronuncia nelle Metamorfosi («quid me mihi detrahis?») evidenziano proprio questa sua “uscita da se stesso” che il cruento episodio ovidiano intende rappresentare. Ma ora Dante, alle prese con la materia del Paradiso, si prepara a una diversa, e ben più impegnativa, “uscita da se stesso”. La sua mente dovrà liberarsi dei propri limiti sensibili e aprirsi all’esperienza della visione puramente intellettuale di Dio. Tale esperienza è designata dai mistici come excessus mentis, ossia appunto uscita (dal verbo latino excedere) dai limiti e dai vincoli in cui ordinariamente opera la mente umana. L’episodio di Marsia (che potrebbe essere definito un excessus corporis2) può dunque costituirne, ancora una volta, la prefigurazione.

Una concezione provvidenzialistica della storia romana
Assai più esplicita, nelle terzine che introducono al viaggio dell’Inferno, risulta l’enunciazione della concezione storiografica propria del medioevo, che interpretava i fatti del mondo precristiano alla luce del concetto cristiano di Provvidenza. L’Impero romano non appare come il prodotto di circostanze storiche immanenti al mondo antico – e cioè di un concorso di fattori economici, politici e militari –, bensì come la manifestazione di un disegno divino destinato a svelarsi solo con la venuta di Cristo. Dio, secondo Dante, ha voluto l’Impero perché, con i suoi caratteri di monarchia universale, esso avrebbe garantito la pace mondiale e la più ampia diffusione del Cristianesimo. La storia romana si configura dunque come preparazione – all’interno di un disegno invisibile agli antichi – di quella della Chiesa. Le posizioni qui espresse da Dante3 vanno lette anche alla luce di altre sue opere. Se è vero che l’Impero è stato voluto da Dio per preparare il Cristianesimo, ciò non toglie nulla al rigore morale con cui Dante condanna i vizi della Chiesa del suo tempo. E non toglie nulla a una concezione politica – espressa nella Monarchia – nella quale si rivendica con forza l’autonomia dell’Impero (che trae la sua legittimazione direttamente da Dio e non ha bisogno, come volevano i sostenitori della dottrina teocratica, della mediazione costituita dal potere temporale del papa [G35]).

Poesia, profezia e allegoria in Virgilio

Il fatto che Virgilio con l’Eneide abbia cantato proprio le origini e i destini dell’Impero romano non poteva, nella prospettiva dantesca, che rafforzarne il prestigio e l’autorità. C’è di più, però: Virgilio racconta, nel VI libro, il viaggio del protagonista nel mondo dei morti; un viaggio dal quale Enea trae gli auspici per portare a compimento la propria missione, che avrà come «alto effetto» la nascita di Roma. Il viaggio di Enea viene da Dante accostato a quello raccontato da San Paolo (che narra di essere stato rapito al terzo cielo; ma la leggenda medievale credeva che avesse visitato anche l’Inferno). L’accostamento tra i due viaggi può creare alcune difficoltà. Mentre Dante poteva certamente credere alla letterale verità di quanto raccontato da San Paolo, è meno verosimile che potesse ritenere letteralmente vero il viaggio di Enea. L’oltretomba pagano visitato da quest’ultimo, infatti, se pur presenta alcune analogie con quello cristiano e ispira alcuni personaggi dell’Inferno, risulta nel complesso molto diverso da esso. Lo stesso Dante, mentre parla del viaggio di San Paolo come di un fatto oggettivo, presenta quello di Enea solo de relato, in quanto narrato da Virgilio («tu dici che di Silvio il parente…»).
A nostro avviso, il viaggio di Enea nell’oltretomba deve essere fatto rientrare nell’allegoria dei poeti; non va visto come un viaggio letteralmente vero, bensì come una vicenda leggendaria che contiene, però, una profonda verità. Si può sicuramente pensare che, per Dante, Virgilio sia stato ispirato da Dio a narrarlo e che, attraverso questa narrazione, egli ci abbia comunicato importanti insegnamenti allegorici e morali. D’altra parte, come abbiamo detto analizzando il problema dell’allegoria dantesca [DIV1c], anche il viaggio di Dante nell’oltretomba – ossia il momento soggettivo del poema, che va nettamente distinto da quello oggettivo – va inteso come allegoria dei poeti, e non certo come un racconto letteralmente vero. Ciò non toglie che esso risulti dotato di una profonda verità allegorica e morale, garantita dalla presenza di una ispirazione divina.

IL PROBLEMA
Un sincretismo instabile
Il sincretismo che sta alla base della Divina Commedia rappresenta il massimo punto di equilibrio raggiungibile tra cultura classica e cultura cristiana; un equilibrio che testimonia del grandioso sforzo dei medievali per garantire quella che Auerbach definisce «una rappresentazione unitaria e finalistica della storia universale e dell’ordine provvidenziale del mondo»4. Tra la strada dell’opposizione frontale rispetto alla cultura classica e quella dell’assimilazione e della sintesi, i medievali avevano scelto la seconda soluzione, pervenendo all’elaborazione di una cultura straordinariamente complessa e feconda.
Ma un equilibrio così raggiunto non poteva essere stabile. Esso si basava infatti su un sostanziale fraintendimento della cultura classica che, seppur giustificato in modo spesso geniale all’interno del cristianesimo medievale, non poteva a lungo resistere a una conoscenza più approfondita dei testi antichi. Già con Petrarca, attivo alcuni decenni dopo Dante, si afferma una nuova scienza, la filologia, basata su una più corretta interpretazione dei testi classici e su una collocazione di essi nel contesto storico da cui hanno origine. Nel quadro della progressiva affermazione della civiltà umanistica, la nuova mentalità scientifica con cui veniva affrontato lo studio dei classici avrebbe dimostrato l’infondatezza della loro rilettura in chiave figurale o profetica. Fino a Dante si poteva ancora interpretare la IV Ecloga di Virgilio come il preannuncio della nascita di Cristo, e perfino pensare che tale testo poetico avesse determinato, già nei primi decenni del cristianesimo, la conversione e la salvezza di qualche pagano [DIV2b]. Con l’uscita dalla civiltà medievale ciò non sarebbe più stato possibile. Richiamarsi alla cultura classica, da Petrarca in poi, significa dunque vivere in modo problematico il rapporto della stessa con il cristianesimo medievale; un cristianesimo che, al tempo di Petrarca, non è comunque affatto tramontato.

La storia romana secondo Petrarca
Nel raffinato e filologicamente accorto classicismo di Petrarca non sembra esserci più spazio per un’interpretazione provvidenzialistica della storia antica: i Romani vi compaiono, infatti, con le virtù proprie della loro cultura e, quando Petrarca li attualizza, lo fa nel senso che cerca di somigliare il più possibile a loro. Nel De vita solitaria, Petrarca analizza ad esempio la figura di Cesare chiedendosi cosa potrebbe fare un uomo come lui se tornasse in vita: «Se oggi Giulio Cesare tornasse dall’al di là e vivendo in Roma sua patria conoscesse il nome di Cristo», osserva Petrarca, non c’è dubbio che andrebbe a combattere in Terrasanta, «egli che quelle terre donò a una concubina quale prezzo del suo adulterio». A Petrarca non interessa domandarsi con quale diritto Cesare abbia agito in quel modo. Il poeta ammira però «quella forza d’animo e quella energia che sarebbe necessaria ai nostri tempi». Come osserva Martellotti5, il discorso di Petrarca – incentrato com’è sulla esaltazione di virtù laiche come la forza d’animo (vis animi) e l’energia (acrimonia), «non mostra alcun segno della fatale missione imposta a Cesare».
Ciò non significa, lo ripetiamo, che in Petrarca la dimensione religiosa sia assente. Significa invece che essa si pone in un rapporto complesso – in cui i tentativi di conciliazione si alternano alla dolorosa consapevolezza di un’estrema difficoltà di arrivare a una soluzione positiva – con la cultura cristiana medievale, cui Petrarca per molti versi continua ad appartenere.

Ariosto: una parodia della Musa
La progressiva affermazione della cultura umanistica e rinascimentale, con la rivalutazione sempre più completa del mondo terreno, fa slittare con il passare del tempo sempre più in secondo piano il problema del rapporto tra classicismo e cristianesimo. Nell’Orlando furioso di Ariosto (I, 2) i riferimenti alla sfera religiosa sono sostanzialmente assenti, e perfino il tema dell’invocazione alla Musa compare solo in forma ironica: il poeta non chiede più ispirazione a una divinità, sia pur pagana, bensì alla propria donna, che lo ha reso pazzo per amore – al pari del protagonista della sua opera –, ma che potrebbe concedergli quel po’ di ingegno necessario a portare a compimento il poema:

Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor vene in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso
6.

La Musa controriformistica di Tasso
Il tema dell’invocazione alla Musa come ispiratrice di poesia religiosa tornerà invece in un altro grande poema del Cinquecento, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Ma quest’autore si muove ormai nel clima inquieto della Controriforma, e non può più concedersi il sereno classicismo sincretistico di Dante. Egli, al contrario, si sentirà in dovere di precisare esplicitamente che la Musa di cui invoca l’ispirazione non è quella dei poeti pagani antichi. E giungerà perfino a chiedere perdono per la bellezza della sua poesia, che potrebbe apparire cosa profana a fronte di un argomento di tanto impegno religioso (il poema, infatti, ha per oggetto la prima Crociata):

O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte7.

Il classicismo cristiano di Dante, per quanto filologicamente poco fondato, gli permetteva di recuperare alla sua poesia tutto quanto gli era noto della tradizione greco-romana, senza che perciò dovesse porsi il problema di giustificare tale scelta. Il cristianesimo controriformistico di Tasso, che riconduce nella grande poesia italiana un argomento religioso dopo secoli di classicismo laico – ma lo fa all’interno di una civiltà che ha perduto le solide certezze del Medioevo – costringerà il poeta a prendere le distanze dalle figure della mitologia classica, e perfino a giustificare moralmente il semplice fatto di esser poeta.




1 Non vanno però dimenticate né la profonda cultura classica di Girolamo, né il fatto che la condanna dei classici potesse comportare, nella sua prospettiva, qualche temperamento [A6].

2 Adottiamo qui la proposta interpretativa contenuta nel brillante – e attentissimo – commento alla Commedia di Vittorio Sermonti (Il Paradiso di Dante, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 18-19).

3 Secondo alcuni critici, in questo passo Dante risulterebbe insolitamente vicino a posizioni guelfe. Riportiamo quanto scrive Natalino Sapegno a commento di Inferno, II, vv. 22-24: «Non si può non avvertire in questa affermazione (e più ancora in tutto il giro della frase, che s’insinua come una chiosa correttiva del testo di Virgilio: “a voler dir lo vero”) una sfumatura di guelfismo, che sembra contrapporsi alle tesi sostenute nel IV del Convivio, e soprattutto nel II della Monarchia e nel VI del Paradiso, dove l’istituto dell’impero è considerato provvidenziale in quanto pone i fondamenti necessari e sufficienti all’avverarsi della piena felicità dell'uomo in questa vita, ed esso è voluto da Dio parallelamente alla Chiesa, ma non subordinato direttamente ad essa». Ciò potrebbe costituire un argomento a favore della tesi secondo cui i primi canti dell’Inferno sarebbero stati scritti prima dell’esilio di Dante. E risulta comunque, secondo Sapegno, «indizio di una qualche incertezza e indeterminatezza dell’ideologia dantesca in questa fase della composizione del poema».

4 Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, 8^ edizione 1980, p. 206.

5 Cfr. Guido Martellotti, Introduzione a Francesco Petrarca, Prose, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, pp. VII-XXV, da cui abbiamo tratto anche, in traduzione, le citazioni dal De vita solitaria.

6 Dirò d’Orlando… promesso: Dirò di Orlando, allo stesso tempo (in un medesmo tratto, cioè contemporaneamente alla trattazione degli argomenti enunciati nell’ottava precedente), qualcosa che non è mai stata detta né in prosa né in poesia (rima), <e cioè> che divenne furioso e matto per amore, da uomo tanto saggio quale era stimato prima; a condizione che (se: introduce una protasi del periodo ipotetico, la cui apodosi è collocata nei primi due versi dell’ottava), da parte di quella donna (colei) che mi ha reso quasi pazzo (tal, cioè simile a Orlando) e che continuamente distrugge (lima) il mio poco ingegno, me ne sarà tuttavia concessa una quantità sufficiente (tanto, con riferimento all’«ingegno») che mi basti a portare a compimento ciò che ho promesso.

7 O Musa… le carte: O Musa, tu che non circondi la fronte sul monte Elicona di corone d’alloro (allori, metonimia) non eterne (caduchi), ma hai una corona dorata (aurea) di stelle immortali su nel cielo, tra (infra) i beati cori <degli angeli>, tu ispira al mio cuore (petto) sentimenti (ardori) degni del cielo (celesti), tu illumina (rischiara) il mio canto, e tu perdonami se aggiungo abbellimenti (intesso fregi) alla verità, se in parte abbellisco (adorno) la mia opera (le carte) con piaceri (diletti) diversi (altri) dai tuoi.



print

print