G36
Dante Alighieri
L'allegoria della Divina Commedia
Epistola a Cangrande 7-8

[Epistola a Cangrande] 7. […] bisogna sapere che il senso di quest’opera non è unico, anzi essa può dirsi polisemica, cioè dotata di più sensi; infatti il primo senso è quello che si ottiene dalla lettera, l’altro è quello che si ottiene dalle cose significate attraverso la lettera1. E il primo senso si chiama letterale, il secondo allegorico2, o morale3, o anagogico4. E questo modo di esporre, perché sia più chiaro, può essere osservato in questi versi: “Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il suo santuario, Israele il suo dominio”5. Infatti, se guardiamo solo alla lettera, ci viene significata l’uscita dei figli di Israele dall’Egitto, al tempo di Mosé. Se guardiamo all’allegoria, ci viene significata la redenzione compiuta ad opera di Cristo; se guardiamo al senso morale, ci viene significata la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al senso anagogico, ci viene significata l’uscita dell’anima santa dalla servitù di questa corruzione verso la libertà della gloria eterna. E sebbene questi sensi mistici si chiamino con vari nomi, possono essere chiamati tutti generalmente “allegorici”, essendo diversi da quello letterale o storico. Infatti si dice allegoria dal greco alleon, che in latino si dice alienum o diversum6.
8. In base a quanto detto, è manifesto che duplice deve essere il soggetto, intorno a cui si articolino i due sensi7. E dunque bisogna trattare del soggetto di quest’opera, in quanto lo si prende alla lettera; e poi in quanto lo si interpreta allegoricamente. È dunque il soggetto di tutta l’opera, presa solo in senso letterale, lo stato delle anime dopo la morte, inteso semplicemente8; infatti riguardo ad esso e intorno ad esso si svolge il procedimento di tutta l’opera9. Se invece si prende l’opera allegoricamente, il soggetto è l’uomo, in quanto meritando e demeritando per via del libero arbitro è soggetto alla giustizia del premio e del castigo10.




1 il primo senso… attraverso la lettera: il primo senso è quello che si ottiene considerando come significante le parole di cui è costituito il poema (dalla lettera); l’altro è quello che si ottiene considerando come significante questo primo senso, che a sua volta era stato raggiunto attraverso le parole (dalle cose significate attraverso la lettera).

2 allegorico: l’aggettivo indica, genericamente, un significato nascosto sotto quello letterale.

3 morale: in Convivio, II, cap. 1, si definisce senso morale “quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti” (quello che i lettori devono attentamente andare a cercare nelle scritture, a vantaggio di se stessi e dei loro allievi [G28]).

4 anagogico: secondo Convivio, II, cap. 1, si parla di senso anagogico “quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria” (quando si spiega secondo il significato spirituale una scrittura la quale, sebbene sia vera anche nel senso letterale, per quello che dice rappresenta le cose divine della gloria eterna [G28]).

5 Quando Israele… il suo dominio: Salmo 114, 1-2. Il brano è ovviamente citato da Dante in latino: “In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius”. Nel passo del Convivio che fa da riscontro a questo [G28], lo stesso brano è utilizzato per illustrare l’allegoria dei teologi.

6 si dice allegoria… diversum: il termine “allegoria” è composto dall’aggettivo greco állos (altro, diverso) e dal verbo agorêin (parlare). L’etimologia dantesca – pur risultando imprecisa nella trascrizione individua il significato del primo elemento.

7 è manifesto… i due sensi: è evidente che <nella Divina Commedia> deve essere individuato un duplice argomento (soggetto), che consenta di affiancare un’interpretazione letterale e una allegorica.

8 inteso semplicemente: interpretato letteralmente.

9 si svolge il procedimento di tutta l’opera: si articola tutta l’opera.

10 se invece… del castigo: interpretata allegoricamente, la Commedia ha come oggetto le scelte che l’uomo compie, in base al libero arbitrio, e che lo rendono meritevole di pena o di punizione. Dante indica qui solo un senso allegorico, che sembra coincidere con quello che, nel Convivio, viene definito come senso “morale”.



Un’interpretazione d’autore
L’Epistola a Cangrande è da considerarsi uno dei testi più significativi – e più discussi: non tutti sono infatti concordi nel riconoscerne l’autenticità – dell’opera di Dante. Essa ha come oggetto la Divina Commedia, di cui fornisce una preziosa chiave di lettura d’autore. Alcune affermazioni – come quelle che riportiamo in questo brano – hanno poi implicazioni di straordinaria importanza nell’interpretazione complessiva del poema. È dunque opportuno procedere a un’ordinata ricognizione di questo breve passo, partendo dalle affermazioni esplicite per risalire – anche attraverso il confronto con altri testi teorici danteschi – alle questioni più complesse e sorprendenti.

Un poema polisemico
Il passo qui antologizzato parte dalla definizione della Commedia come poema “polisemico”. Esso è composto in primo luogo, com’è naturale, di una “lettera”, ossia delle parole con cui è scritto. Tale “lettera” costituisce – per usare la terminologia linguistica moderna – il suo significante. Attraverso di essa si veicola il primo e più semplice significato del poema, quello detto appunto “letterale”: un significato che, in sostanza, consiste nella descrizione dei tre regni dell’Oltretomba (“lo stato delle anime dopo la morte” [8]).
Ma tale significato “letterale” non è ovviamente l’unico. La polisemia, infatti, consiste proprio nel fatto che il primo significato (“quello che si ottiene dalle cose significate attraverso la lettera” [7]) diviene, a sua volta, il significante di un secondo significato: tale significato, ulteriore e diverso, è ciò che Dante chiama “allegoria”.

Diversi tipi di allegoria
Il passo dell’Epistola non si limita a parlare genericamente di allegoria, ma distingue – come già avveniva in Convivio, II, cap. 1 – tre diversi sensi allegorici: il senso “allegorico” propriamente detto; il senso “morale”; il senso “anagogico”, ossia quello che significa “le superne cose de l’etternal gloria” [G28].
Per esemplificare questi tre sensi aggiuntivi, Dante usa come esempio un testo biblico (il Salmo 114). Esso, interpretato alla lettera, racconta la storia dell’uscita del popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto. In senso propriamente allegorico indica la redenzione dell’uomo operata da Cristo; in senso morale indica il passaggio dell’uomo dal peccato alla grazia; in senso anagogico, infine, indica l’ascesa dell’anima alla gloria eterna.
La complessa articolazione dei tre sensi allegorici non assume però per Dante una funzione essenziale. Egli, infatti, autorizza a raggruppare questi tre sensi sotto l’etichetta di “allegoria”, sottolineando solo la profonda differenza tra essi e il senso letterale. Allegoricamente, conclude su queste basi Dante, la Commedia andrà interpretata come un’opera che ha come soggetto “l’uomo, in quanto meritando e demeritando per via del libero arbitro è soggetto alla giustizia del premio e del castigo” [8].

Verità o falsità della lettera
Il passo dell’Epistola, che potrebbe apparire a una prima lettura privo di eccessive difficoltà interpretative, presenta però un aspetto sorprendente. Per illustrare l’interpretazione allegorica della Commedia, infatti, Dante ha scelto un esempio tratto dalla Bibbia. L’accostamento non appare casuale e il suo significato può comprendersi solo rileggendo il brano del Convivio che tratta della stessa questione [G28].
Nel Convivio Dante distingueva due tipi di allegoria: l’allegoria dei poeti, il cui senso letterale è falso, ma il cui senso allegorico può essere vero; e l’allegoria dei teologi, in cui sono veri sia il senso letterale che quello allegorico. Come esempio di questo secondo tipo di allegoria Dante usava proprio quello stesso Salmo 114 qui richiamato a proposito della Commedia: un brano che racconta un fatto storico vero (l’Esodo del popolo ebraico), ma che racchiude anche profonde verità relative ai destini dell’anima.
Il fatto che Dante scelga di illustrare la Commedia proprio con questo brano ha implicazioni notevoli. Egli ci suggerisce, in sostanza, di leggere il poema non secondo l’allegoria dei poeti, ma secondo quella dei teologi; di considerare vero non solo il suo senso morale, ma perfino il suo senso letterale. Dante non vuole, cioè, essere accomunato a quei poeti che si limitano a nascondere verità allegoriche sotto un velo di menzogna. Chiede invece addirittura che si prenda per vero il mondo ultraterreno (“lo stato delle anime dopo la morte” [8]) che la sua opera minuziosamente descrive.
Inferno, Purgatorio e Paradiso non sono dunque regni immaginari o puramente allegorici, costruiti per illustrare concetti morali e filosofici. Essi hanno invece una precisa strutturazione fisica, si trovano in luoghi perfettamente individuati e, per Dante, esistono davvero e sono fatti proprio come lui li descrive. Ma naturalmente – in virtù della polisemicità del poema – nella descrizione di questi regni, molto spesso, al significato letterale andranno associati ulteriori significati di ordine allegorico, morale o anagogico.
L’idea di un Dante che voglia farci credere alla letterale verità del mondo rappresentato dalla sua opera potrebbe risultare, per noi moderni, sconcertante. Ma non bisogna dimenticare la poetica dell’ispirazione divina che è sottesa all’intera concezione dantesca della letteratura [DIV8]. Dante lascia intendere, in più punti del poema, di avere ricevuto l’impulso a scrivere la sua opera direttamente dal Cielo (si pensi al secondo canto dell’Inferno, che fa risalire l’inizio del viaggio addirittura alla volontà della Vergine). Una simile affermazione, a prima vista, potrebbe apparirci come frutto – quantomeno – di un peccato di superbia. Ma i medievali erano così convinti della natura divina dell’ispirazione poetica, sostanzialmente accomunata a quella profetica, da estenderla addirittura ai poeti precristiani, facendo ad esempio di Virgilio un profeta inconsapevole della venuta di Cristo [DIV2a]. In questa prospettiva non è affatto inverosimile che Dante ritenesse che l’ispirazione a narrare potesse essergli davvero giunta dal Cielo (e occorre tenere presente anche che, presso i medievali, la convinzione di avere vissuto esperienze mistiche era assai meno rara che ai nostri tempi). È forse grazie a questa convinzione, del resto, che egli ha osato azzardare nel suo poema ciò che nessun poeta aveva mai osato: la narrazione impossibile – eppure perfettamente compiuta – della visione intellettuale di Dio, del mistero della Trinità e dell’Incarnazione. Ossia di ciò che, per sua natura1, non si presta a essere descritto da parola umana [DIV14b].


1 Cfr. Paradiso, I, vv. 1-12.


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