G30
Dante Alighieri
Il volgare illustre
De vulgari eloquentia I, 16-18

[De vulgari eloquentia, I, cap. 16] 1. Dopo che siamo andati a caccia per boschi e pascoli d’Italia1, e non abbiamo trovato la pantera che inseguiamo2, per poterla rintracciare indaghiamo su di essa con un criterio più razionale3, affinché, con una ricerca attenta, possiamo catturare finalmente nelle nostre reti lei, che spande dovunque il suo profumo ma non appare in nessun luogo4.
2. Riprendendo dunque i nostri strumenti da caccia, diciamo che, in ogni genere di cose, deve essercene una in base alla quale tutte le cose dello stesso genere siano comparate e soppesate, e a partire dalla quale prendiamo le misure di ogni altra5: così, i numeri sono tutti misurati in base all’uno, e sono detti “maggiori” o “minori” a seconda di quanto si allontanano dall’uno o sono vicini ad esso; e così tutti i colori vengono misurati in base al bianco – infatti si dicono più o meno chiari a seconda di quanto si avvicinano o si allontanano dal bianco. […] 3. Per cui nelle nostre azioni, in quanto esse si dividono in specie, è necessario trovare l’elemento in base al quale anche esse si misurino6. Infatti, in quanto agiamo semplicemente come uomini, abbiamo la virtù7 – per intenderla in senso generale –: infatti in base ad essa giudichiamo un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come cittadini, abbiamo la legge, secondo la quale un cittadino è considerato buono o cattivo. In quanto agiamo come uomini d’Italia8, abbiamo alcuni semplicissimi elementi, di costumi, di abitudini e di lingua, in base ai quali si soppesano e misurano le azioni degli Italiani. 4. E certo le azioni più nobili tra quelle proprie degli Italiani non appartengono a nessuna città d’Italia e sono comuni a tutte: e tra queste ora si può riconoscere quel volgare di cui prima andavamo a caccia9, il quale profuma in ogni città ma non risiede in nessuna10. 5. Può tuttavia profumare più in una città che in un’altra11, come la più semplice delle sostanze12, che è Dio, fa sentire il suo profumo più nell’uomo che nella bestia, più nell’animale che nella pianta, più in quest’ultima che nel minerale, e in questo più che nell’elemento semplice, più nel fuoco che nella terra13; e la quantità più semplice, che è l’uno, profuma più nel numero dispari che nel pari14; e il colore più semplice, che è il bianco, manda il suo profumo più nel giallo che nel verde.
6. Dunque, trovato ciò che cercavamo, chiamiamo illustre, cardinale, regale e curiale il volgare d’Italia che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale si misurano, soppesano e confrontano tutti i volgari municipali degli Italiani.

[De vulgari eloquentia, I, cap. 17] 1.
Ora dunque bisogna esporre per quali ragioni, questo volgare che abbiamo trovato, lo qualifichiamo con gli aggettivi illustre, cardinale, regale e curiale: e per questa via faremo capire più chiaramente ciò che esso è.
2. Per prima cosa dunque mettiamo in chiaro cosa intendiamo quando lo qualifichiamo come illustre, e perché lo chiamiamo illustre. Usando il termine illustre, intendiamo qualcosa che illumina e che, se è illuminata, risplende15: e in questo modo chiamiamo gli uomini illustri o perché, illuminati dal potere16, illuminano gli altri con la giustizia e la carità, o perché, depositari di un alto magistero17, altamente ammaestrano18, come Seneca e Numa Pompilio.19 E il volgare di cui parliamo è innalzato dal magistero e dal potere, e innalza i suoi conferendo onore e gloria20.
3. Che sia innalzato dal magistero, risulta evidente dal fatto che, a partire da tanti vocaboli rozzi usati dagli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante forme erronee, da tanti accenti paesani, lo vediamo venir fuori così nobile, così lineare, così perfetto e così urbano21, come mostrano Cino da Pistoia e il suo amico22 nelle loro canzoni.
4. Ed è anche evidente perché sia innalzato dal potere23. E cosa ha più potere di ciò che può smuovere i cuori degli uomini, in modo da convincere chi non vuole a volere, e chi vuole a non volere24, come questo stesso volgare ha fatto e fa?
5. È poi chiaro perché innalzi conferendo onore25. Forse che i suoi domestici26 non superano in fama re, marchesi, conti e potenti di ogni sorta? Ciò non ha bisogno di esser dimostrato. 6. E quanto renda gloriosi i suoi servitori27, noi stessi lo sappiamo, che per la dolcezza di questa gloria non ci curiamo dell’esilio.
7. Per cui dobbiamo, giustamente, riconoscerlo illustre.

[De vulgari eloquentia, I, cap. 18] 1. E non senza ragione qualifichiamo questo volgare illustre con il secondo attributo, in base al quale appunto è detto cardinale28. Infatti, come tutta la porta dipende dal cardine in modo che, se il cardine gira, giri anch’essa, aprendosi verso l’interno o verso l’esterno, allo stesso modo anche l’intero gregge dei volgari municipali gira e rigira, si muove e si ferma a seconda di ciò che fa quello, che davvero appare essere il capofamiglia. Non strappa forse ogni giorno i cespugli spinosi dall’italica selva? Non innesta ogni giorno germogli, o trapianta piantine? Di che cosa si occupano i suoi giardinieri, se non di sradicare e piantare29, come si è detto30? Per cui, merita appieno di essere qualificato con un tale epiteto.
2. La ragione del fatto che lo chiamiamo regale31 è poi che, se noi Italiani avessimo una reggia, esso abiterebbe nel palazzo. Infatti, se la reggia è la casa comune di tutto il regno e l’augusta sede del governo di tutte le parti di esso, qualunque cosa sia tale da esser comune a tutti e non propria di alcuna parte32, è giusto che stia nella reggia e vi abiti, né alcun’altra dimora è degna di un tale abitante; e tale veramente sembra essere quel volgare di cui parliamo. 3. E da qui discende il fatto che i frequentatori di tutte le regge parlano sempre in volgare illustre; da qui discende il fatto che il nostro volgare illustre va pellegrino come uno straniero ed è ospitato in umili asili33, poiché manchiamo di una reggia.
4. E a buon diritto deve essere chiamato anche curiale34, poiché la curialità altro non è che una regola ben ponderata35 delle azioni da compiersi: e dato che la bilancia di tale ponderazione è solita trovarsi solo nelle più eccellenti curie, è per questo che tutto ciò che nelle nostre azioni è ben ponderato viene detto curiale. Per cui, essendo questo volgare ponderato nella più eccellente curia degli italiani, merita di esser detto curiale.
5. Ma dire che esso sia stato ponderato nella più eccellente curia degli Italiani sembra uno scherzo, poiché noi non abbiamo una curia. A questa obiezione si risponde facilmente. Infatti, benché in Italia non vi sia una curia nel senso di una curia unificata, come la curia del re di Germania, tuttavia non mancano le membra di essa; e come le membra di quella sono unite da un unico Principe, così le membra di questa sono unite dalla luce di grazia della ragione. Per cui sarebbe falso dire che agli Italiani manca una curia, sebbene ci manchi un Principe; poiché abbiamo una curia, anche se materialmente è dispersa36.




1 Dopo… d’Italia: Dopo che abbiamo esaminato le parlate italiane. La metafora della caccia rappresenta la ricerca, tentata inutilmente nei capitoli precedenti, di una parlata locale degna di essere considerata «la lingua più bella e illustre d’Italia» (cap. 11).

2 e non abbiamo trovato la pantera che inseguiamo: e non abbiamo identificato il volgare illustre che cerchiamo. Nessuna delle parlate locali esaminate da Dante è risultata degna della qualifica di «illustre». Per la metafora della pantera, cfr. nota .

3 con un criterio più razionale: la «caccia» dei capitoli precedenti consisteva in un esame delle singole parlate locali. A questo criterio empirico ne verrà ora sostituito uno logico-deduttivo (più razionale).

4 catturare… non appare in nessun luogo: secondo i medievali la pantera, con il suo ruggito, emetteva un intenso profumo che si spandeva ovunque attirando le prede. Metaforicamente quest’animale il cui profumo si sente in ogni luogo, ma che in nessun luogo è possibile catturare, rappresenta il volgare illustre che – come sarà detto più sotto – «profuma in ogni città ma non risiede in nessuna» [4]. Tale volgare illustre, infatti, pur non identificandosi con nessun parlata municipale, rappresenta la matrice comune a tutti i dialetti italiani.

5 Riprendendo… di ogni altra: Ricominciando dunque la nostra ricerca (caccia), diciamo che, in ogni insieme di cose appartenenti allo stesso genere, deve esistere un elemento che permetta di confrontare e valutare tutti gli altri elementi dello stesso genere, e che serva da unità di misura di tutti gli altri. Se una tale “unità di misura” esiste in ogni genere di cose (oggetti materiali o concetti), se ne dovrà logicamente dedurre che essa esista anche per le lingue. Il ragionamento è desunto dalla Summa contra gentiles di san Tommaso.

6 in quanto esse si dividono in specie: le azioni umane possono essere classificate in species, di ciascuna delle quali si può individuare un parametro di misurazione.

7 la virtù: è il parametro morale con cui si misurano le nostre azioni in quanto uomini.

8 come uomini d’Italia: così come esistono parametri di misurazione e valutazione per le azioni che compiamo in quanto uomini e in quanto cittadini, esistono analoghi parametri per ciò che ci qualifica come uomini d’Italia (homines latini).

9 e tra queste… a caccia: l’elaborazione di un «volgare illustre» rientra tra le «azioni più nobili» compiute dagli Italiani (Dante pensa all’attività dei letterati, che hanno creato un volgare che supera i confini municipali).

10 il quale profuma… in nessuna: il quale lascia intravedere la sua esistenza (profuma: il verbo riprende la metafora della pantera) in ogni città, ma non si identifica con la parlata di (non risiede in) nessuna.

11 Può tuttavia… che in un’altra: <Il modello del volgare illustre> può tuttavia essere meglio rispecchiato dalla parlata di una città, e meno bene da quella di un’altra. Esiste cioe una gradazione tra i volgari municipali, che possono essere più o meno vicini a quello illustre. In precedenza (capitolo 15) Dante aveva indicato il bolognese come «la lingua più bella», osservando però che essa non può essere identificata con il volgare illustre: infatti i grandi poeti di Bologna, come Guido Guinizzelli, si allontanarono nella loro opera dalla propria parlata municipale.

12 la più semplice delle sostanze: il più perfetto degli esseri.

13 più nell’uomo… nella terra: anche nell’ordine dell’universo esiste una gerarchia tra le creature, a seconda della maggiore o minore vicinanza al modello di perfezione assoluta, Dio.

14 profuma… che nel pari: il numero dispari è formato da un numero pari più il numero uno. È una considerazione di origine pitagorica, che era stata ripresa da Aristotele e da san Tommaso.

15 qualcosa che illumina… risplende: le metafore relative alle luce si spiegano con l’etimologia dell’aggettivo latino illustris, che si collega a lux.

16 illuminati dal potere: elevati dall’influenza che esercitano sulle altre persone: il termine potere (potestas) si collega in questa pagina con l’esercizio della virtù; come si evince dai capoversi successivi [4], esso non si riferisce esclusivamente al potere politico.

17 depositari di un alto magistero: excellenter magistrati; l’espressione si collega etimologicamente a magister; magistero è dunque l’autorevolezza culturale, qualità propria dei sapienti, di quanti sono dotati della capacità di ammaestrare.

18 altamente ammaestrano: excellenter magistrant; anche qui è evidente il legame etimologico con magister.

19 Seneca e Numa Pompilio: Lucio Anneo Seneca, filosofo e letterato vissuto nel I secolo d. C., fu precettore di Nerone nei primi cinque anni del suo principato. Dante lo collocherà nel Limbo tra gli «spiriti magni» (Inferno, IV, v. 141). Numa Pompilio, mitico successore di Romolo, è ricordato come il re che diede a Roma gli ordinamenti religiosi e le leggi. Questi due saggi dell’antichità erano visti dai medievali come anticipatori del Cristianesimo.

20 E il volgare… onore e gloria: E il volgare di cui parliamo è reso illustre (innalzato) dall’autorevolezza culturale (magistero) e dal potere (cfr. nota ) <di chi lo adopera>, e rende illustri coloro che lo coltivano (i suoi) procurando loro onore e gloria.

21 così nobile… urbano: i quattro aggettivi che qualificano il volgare illustre si oppongono simmetricamente ai quattro aggettivi usati in precedenza per qualificare le parlate locali. Il volgare illustre – qui identificato con la lingua usata dai maggiori poeti italiani – è «nobile» (egregium), mentre le parlate locali si valevano di «vocaboli rozzi» (rudibus… vocabulis); è «lineare» (extricatum), in opposizione alle «costruzioni intricate» (perplexis constructionibus) dei singoli dialetti; è «perfetto» (perfectum), a fronte di molte «forme erronee» (defectivis prolationibus) dei volgari municipali; ed è «urbano» (urbanum) mentre i dialetti sono inficiati da «accenti paesani» (rusticanis accentibus).

22 il suo amico: lo stesso Dante, che si qualifica con una perifrasi in virtù della sua amicizia con Cino da Pistoia. Ai poeti (e in particolare a se stesso) Dante attribuisce dunque il merito di avere innalzato il volgare, depurandolo dalle scorie municipali.

23 innalzato dal potere: il «potere» era stato prima indicato, insieme al «magistero», come la qualità che rende «illustri» gli uomini (cfr. nota ).

24 E cosa… a non volere: E cosa ha maggiore forza nei confronti degli altri (questo il significato, non strettamente politico, che qui assume il termine potere) di ciò che è in grado di commuovere il cuore degli uomini, modificandone la volontà? La domanda è retorica e tende ad evidenziare il potere della parola, o più precisamente dell’eloquenza – possibile ed efficace, ai tempi di Dante, solo in volgare –, capace di orientare e modificare la volontà degli uomini.

25 conferendo onore: è l’ultimo elemento che concorre alla definizione dell’aggettivo «illustre» [cap. 17, 2].

26 domestici: il sostantivo si collega etimologicamente a domus (casa); può indicare le persone di servizio, ma indica al tempo stesso una persona che è in rapporti di familiarità, di dimestichezza con un’altra. Il riferimento riguarda i letterati, che hanno dimestichezza con il volgare illustre.

27 servitori: familiares. Come subito si chiarisce, Dante si riferisce qui a se stesso.

28 cardinale: l’aggettivo – come sarà subito chiarito dalla similitudine della porta – si ricollega al sostantivo cardo (cardine). Si ribadisce il concetto che il volgare illustre rappresenta la matrice comune di tutti i singoli volgari italiani, pur non identificandosi con nessuno di essi.

29 Non strappa… sradicare e piantare: Forse che <il volgare illustre> non estirpa (strappa) continuamente le espressioni più rozze (i cespugli spinosi) dall’intricata varietà dei volgari italiani (dall’italica selva)?Forse che esso non fa nascere di continuo nuove parole (innesta germogli) o non le trasferisce di luogo in luogo (trapianta piantine)? Di cosa si occupano coloro che lo coltivano (i suoi giardinieri) se non di emendare la lingua dalle sue forme impure (sradicare) e di arricchirla (piantare)? Al di là dell’esatta spiegazione delle singole immagini (la libera parafrasi che abbiamo proposto è solo una di quelle possibili), è chiaro che le domande retoriche si concentrano sul ruolo cardinale del volgare illustre, che agisce da regolatore rispetto alle singole parlate innescando un processo di sprovincializzazione.

30 come si è detto: la metafora tratta dal giardinaggio – di origine biblica – era già stata usata da Dante in precedenza. Nel cap. XI, in particolare, egli attribuiva a se stesso il compito di «estirpare dal bosco i cespugli intricati e i rovi».

31 regale: degno di una reggia. Nel testo latino l’aggettivo utilizzato è aulicum (che può essere tradotto anche con aulico).

32 comune… di alcuna parte: ritorna il concetto-chiave già sintetizzato nella metafora della pantera.

33 va pellegrino… in umili asili: la mancanza di una reggia in Italia sottrae al volgare illustre la propria sede naturale. Ancora una volta, la metafora contiene un evidente riferimento autobiografico all’esilio di Dante (la cui battaglia politica, peraltro, aveva un punto qualificante proprio nel richiamo alla restaurazione di un forte potere imperiale, e dunque all’istituzione di una reggia).

34 curiale: la «curia» sembra essere intesa come l’insieme degli intellettuali e dei giuristi concentrati intorno alla reggia. Ma il termine non è definito esplicitamente.

35 una regola ben ponderata: librata regula; nella curia si elaborano, con saggia ponderazione, le leggi.

36 Infatti… dispersa: il ceto intellettuale, pur non essendo riunito intorno a una corte come avviene in Germania, è comunque presente e attivo in Italia: i suoi membri sono materialmente dispersi, ma sono uniti dal comune esercizio della ragione. È evidente come Dante, di fronte alla drammatica disunione politica degli italiani, indichi gli intellettuali come ideale classe dirigente, attribuendo loro una funzione di supplenza.



Dalla ricerca empirica alla deduzione logica
Il capitolo 16 del De vulgari eloquentia segna una svolta nella trattazione; nelle pagine precedenti Dante aveva esaminato le parlate di molte città d’Italia, affermando – sulla base, sovente, di un proprio giudizio di gusto – che nessuno dei volgari esistenti meritava la qualifica di «illustre» (anche se, tra tutti, era possibile individuare una lingua più bella delle altre: quella parlata a Bologna).
Ciò non vuol dire, però, che il volgare illustre non esista; vuol dire solo che la sua esistenza andrà provata con strumenti diversi dal semplice inseguimento per «boschi e pascoli d’Italia».
L’esistenza di tale volgare, non dimostrabile empiricamente a partire da alcuna parlata locale, viene da Dante postulata come una necessità logica [cap. 16, 2-3] con un ragionamento che ga i suoi precedenti nella Summa contra gentiles di san Tommaso d’Aquino. In ogni insieme di cose, ciascun elemento è misurabile in base a un elemento più semplice (l’uno per i numeri, il bianco per i colori). In base a questo criterio, è possibile misurare le azioni dell’uomo come essere morale (l’unità di misura è in questo caso costituita dalla virtù) e come cittadino (l’unità di misura sarà, sotto quest’aspetto, la legge). Quale sarà, dunque, l’unità che misura un uomo come abitante del territorio italiano, il parametro della sua “italianità”? Tale unità va individuata in alcuni «semplicissimi elementi, di costumi, di abitudini e di lingua».

La metafora della pantera e il volgare “cardinale”
Il ragionamento deduttivo è incastonato tra due riferimenti alla stessa, significativa metafora: quella della caccia – risultata finora infruttuosa – alla pantera, animale «che spande dovunque il suo profumo ma non appare in nessun luogo» [cap. 16, 1] e che va identificato con «quel volgare di cui prima andavamo a caccia, il quale profuma in ogni città ma non risiede in nessuna» [cap. 16, 4]. La metafora – convergendo con il ragionamento deduttivo – individua dunque, per il volgare illustre, una particolare condizione di esistenza. Esso non è in alcun luogo, non si identifica con nessuno dei volgari parlati in Italia, eppure «profuma» ovunque: rappresenta, insomma, la matrice comune a tutti i volgari italiani.
Il concetto viene poi fissato teoricamente [cap. 18, 1] nell’aggettivo «cardinale»: il volgare illustre rappresenta il «cardine» intorno al quale ruotano tutti i volgari italiani, la matrice comune a tutte le diverse parlate; ciò che fa sì, insomma, che i dialetti d’Italia possano dirsi tutti italiani.

Il volgare “illustre” e l’autocoscienza del letterato
Gli altri attributi con cui Dante qualifica il volgare risentono più da vicino della realtà culturale e politica nella quale il trattato si colloca. Definendo illustre il volgare italiano (il quale, è il caso di ricordarlo, pur non realizzandosi in nessuna parlata, si realizza invece nella letteratura), Dante attribuisce ai letterati la responsabilità di formare la lingua della nazione, intuendo il ruolo centrale che, anche nei secoli successivi, avrebbe avuto la tradizione scritta. Nel testo sono presenti diversi elementi che inducono a legare strettamente il destino individuale di Dante con quello del volgare illustre: l’uno e l’altro vengono designati come esuli [cap. 17, 5; cap. 18, 3]; l’azione che il volgare illustre compie su tutte le parlate locali è designata con una serie di metafore agricole [cap. 18, 1] molto simili a quelle che, in precedenza, Dante aveva adoperato con riferimento a se stesso (cap. 11); e le prove visibili dell’esistenza di questo volgare illustre sono indicate proprio nelle canzoni di Cino da Pistoia e del «suo amico», cioè appunto Dante [cap. 17, 3].

Regalità e curialità: il rapporto lingua-società e ruolo di supplenza della letteratura
Tra le intuizioni feconde di questo capitolo c’è anche quella relativa al rapporto organico che esiste tra lingua e società. La frammentazione linguistica italiana e l’inesistenza di un volgare parlato che possa essere assunto come standard si spiegano con l’assenza di un potere centrale, di quella reggia che in altri Paesi – per esempio in Francia – avrebbe consentito, nell’arco dei secoli, la fissazione e la prevalenza di un modello valido per tutta la nazione (in sostanza, la lingua della capitale). La frammentazione politica dell’Italia, in effetti, avrebbe portato a un ritardo nell’unificazione linguistica (compiutasi nel nostro Paese in gran parte nel XX secolo). Di fronte ai segni di questa frammentazione già evidenti al suo tempo, Dante attribuisce agli intellettuali un ruolo importantissimo: essi costituiscono la «curia» della nazione; e a questa curia si dovranno in sostanza i modelli di lingua scritta su cui verrà costruito il futuro italiano parlato. Dante intuisce, in altre parole, un’altra peculiarità della nostra storia linguistica: e cioè il ruolo centrale che la tradizione letteraria avrebbe avuto nella creazione dell’italiano standard. Se noi possiamo oggi leggere in originale i poeti del Trecento riconoscendo, pur con qualche difficoltà interpretativa, che essi scrivono nella nostra stessa lingua – cosa che non avviene, ad esempio, per i francesi – è proprio perché in Italia, in assenza di un’unità politica, la letteratura ha avuto una funzione importantissima nella pur lentissima elaborazione dello standard. La letteratura ha svolto insomma, sul piano linguistico, proprio quel ruolo di supplenza indicato da Dante in questo capitolo.




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